Strage di Bologna: un affare di Stato – 1^ parte

Strage di Bologna: un affare di Stato – 2^ parte

Il 10 ottobre 1982 morì a Santa Cruz, in Bolivia, Pierluigi Pagliai, ucciso a freddo nel corso di un’operazione condotta dalla polizia boliviana, che aveva accettato la richiesta di collaborazione dei Servizi segreti italiani; a parteciparvi, anche una trentina di agenti del SISDE, atterrati la mattina stessa all’aeroporto della città.

Davanti alla cattedrale Nuestra Seňora de Fatima, Pagliai, disarmato e circondato da uno stuolo di uomini armati, aveva immediatamente alzato le mani, ma ciò non era bastato a salvargli la vita. A sparargli alla nuca era stato probabilmente un agente boliviano.

Trasportato all’ospedale in gravi condizioni, i Servizi italiani, nonostante il parere contrario del chirurgo che l’aveva operato, decisero di caricarlo sul DC9 e affrontare il lungo volo per riportarlo subito in Italia, dove però giunse cadavere.

Era l’epilogo dell’operazione Marlboro, autorizzata dall’allora presidente del consiglio, Giovanni Spadolini, tesa alla cattura – e probabilmente alla premeditata eliminazione – dei vertici di Avanguardia Nazionale, colpiti da mandati di cattura da parte dei giudici istruttori di Bologna per la strage del 2 agosto.

Il giudice Aldo Gentile, che si era distinto per una certa prudenza nel valutare le prove contro i NAR, in quest’occasione dimostrò, a tutto concedere, un’incredibile mancanza di intelligenza, abboccando alle dichiarazioni di un personaggio spuntato come un fungo alla fine del 1981 e che fu all’origine di quella tragica vicenda.

Si tratta di Elio Ciolini, protagonista di un capitolo della storia dell’inchiesta sul 2 agosto tanto grottesco da sembrare il copione di una commedia all’italiana.

Se ne parliamo, però, non è per la sua rilevanza processuale, alla fine rivelatasi del tutto nulla, ma perché questo capitolo surreale, scritto grazie – ad esser benevoli – all’imbecille ingenuità di un magistrato, si concluse in una tragedia che vide lo stato italiano macchiarsi del sangue di un innocente; e mostra, se mai ce ne fosse bisogno, la profonda immoralità delle nostre istituzioni, rose alla radice dalla menzogna e dall’incompetenza.

Ciolini, detenuto in Svizzera per delitti patrimoniali, si era messo in contatto col console italiano Ferdinando Mor rivelandogli di essere in possesso di notizie riguardanti la strage di Bologna.

Nelle sue dichiarazioni, rese nei mesi successivi ai magistrati, via via più ricche di particolari, l’uomo accusò una fantomatica Loggia di Montecarlo, emanazione di un’ampia organizzazione chiamata Trilaterale (sic), di aver deciso la strage di Bologna allo scopo di distrarre l’opinione pubblica da una spericolata operazione finanziaria, ossia l’acquisizione da parte di uomini della Trilaterale di un importante pacchetto di azioni della Montedison.

Presenti al momento della decisione, oltre a Ciolini, vi sarebbero stati Roberto Calvi, Licio Gelli, l’industriale Attilio Monti – e altri personaggi minori – che avrebbero affidato l’incarico esecutivo a Stefano Delle Chiaie (effettivamente conosciuto dal testimone anni prima in Bolivia), il tutto debitamente verbalizzato da un avvocato…

Non basterebbero cento pagine per descrivere le deliranti affermazioni di Ciolini, degne di un thriller di infima categoria; tanto inverosimili e assurde da chiedersi come sia stato possibile non solo fondarvi dei provvedimenti di cattura, ma persino prestarvi la minima attenzione.

Le dichiarazioni – ovviamente ben ricompensate dal generoso Stato italiano con 100 milioni di lire – furono poi ritrattate, ribadite, modificate, ritrattate ancora, fino ad arrivare alle accuse che il “superteste” lanciò poi contro lo stesso giudice Gentile e altri suoi collaboratori, finiti sotto processo e poi assolti.

Ma intanto la spirale della follia si era già messa in moto. Le misure cautelari ordinate contro Stefano Delle Chiaie, Maurizio Giorgi, Pierluigi Pagliai per il delitto di strage, e di associazione sovversiva contro altri avanguardisti, determinarono la scelta, approvata dal governo, di due successive operazioni di polizia internazionale. Alla prima, fallita, chiamata Pall Mall (dalla marca di sigarette fumate dal leader di AN) seguì l’operazione Marlboro destinata come la prima a chiudere la pratica “2 agosto” trovando i “colpevoli”; preferibilmente morti. A rimetterci fu soltanto il povero Pagliai, dato che Delle Chiaie e gli altri si erano da poco spostati altrove.

Se la testimonianza di Ciolini si rivelò ben presto una bolla di sapone, un’altra, invece, ha mantenuto una enorme rilevanza processuale, tanto da costituire la prova essenziale per la definitiva condanna di Mambro e Fioravanti, indirettamente di Luigi Ciavardini e, seppur non ancora in via definitiva, di Gilberto Cavallini.

Si tratta della testimonianza di Massimo Sparti, malavitoso con alcune conoscenze nel mondo dell’estrema destra romana; arrestato nella primavera del 1981 per reati comuni, iniziò poco dopo a rilasciare dichiarazioni ai magistrati bolognesi, affermando che il 4 agosto 1980 aveva incontrato a Roma Valerio Fioravanti, il quale gli avrebbe chiesto con urgenza due documenti falsi, per Francesca Mambro, dicendosi preoccupato che qualcuno a Bologna l’avesse riconosciuta; nell’occasione gli avrebbe inoltre confidato la sua presenza alla stazione, travestito da turista tedesco. Le minacciose insistenze di Valerio l’avrebbero spinto a rivolgersi in tutta fretta a un falsario, che gli avrebbe così fornito i documenti, poi consegnati a Valerio il giorno dopo.

Abbiamo visto come, almeno inizialmente, i magistrati dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Bologna, pur attratti da altre piste poi rivelatesi inconcludenti, si fossero invece dimostrati assai cauti sulle pretese responsabilità dei NAR, tanto da negare l’emissione di mandati di cattura sulla base delle dichiarazioni dello Sparti.

La sostituzione degli originari giudici istruttori titolari dell’inchiesta, rimasti schiacciati sotto il peso dello scandalo Ciolini, compattò la fazione colpevolista che proprio su quelle dichiarazioni cucì l’imputazione contro i NAR.

Le “confessioni” di presunti colpevoli hanno costituito un must nelle indagini per fatti di c.d. “terrorismo nero”; spuntavano sempre quando mancavano prove decenti, offrendo agli inquirenti le travi per sostenere l’impalcatura accusatoria: nel processo per la strage dell’Italicus, dove l’ammissione di responsabilità sarebbe stata riferita addirittura a un avversario politico; qui, a una persona estranea all’ambiente politico e di superficiale conoscenza col presunto confidente.

Tanto più che il racconto di Sparti fu presto smentito dalla moglie, dalla suocera e dalla colf, le quali affermarono ripetutamente che l’uomo, il 4 agosto, si trovava con loro a Cura di Vetralla, in vacanza, e quindi non poteva essere a Roma a incontrare Fioravanti.

A queste smentite si aggiungerà in seguito quella del figlio, il quale affermerà che in punto di morte il padre gli aveva confessato la falsità delle dichiarazioni.

Senza contare che dei documenti asseritamente forniti a Fioravanti per favorire la latitanza della Mambro non se ne sentì più parlare, né furono mai individuati; anzi, risulta pacificamente che il 5 agosto – giorno in cui la ragazza, secondo il racconto di Sparti, sarebbe stata già fornita di un documento falso – pernottò clandestinamente in un albergo con Fioravanti senza registrarsi; la qual cosa è palesemente in contrasto col preteso possesso di un’identità sicura.

Tutte obiezioni, come vedremo, tenute in non cale dalla magistratura bolognese. Ma per quale ragione accusare falsamente i NAR? E qui s’innesta lo strano caso del signor Massimo Sparti.

Questi, detenuto, aveva richiesto una visita assumendo un malessere che si era manifestato con un dimagrimento. La prima diagnosi fu emessa dal dottor Francesco Ceraudo, direttore del centro clinico presso il carcere di Pisa, dove lo Sparti era stato trasferito alla fine del 1981. Richiesto di verificare se lo stato di salute fosse compatibile con la detenzione, il medico dopo aver effettuato tutti gli accertamenti diagnostici aveva risposto affermativamente, non essendo stata riscontrata alcuna patologia, a parte delle banali emorroidi e una semplice caduta dell’umore, tipica dei soggetti in stato detentivo.

Subito dopo aver trasmesso il relativo referto ai giudici romani, il dott. Ceraudo fu però misteriosamente rimosso dal suo incarico; il sanitario che lo sostituì provvide ad effettuare nuovi rilievi su Sparti, in particolare una Tac addominale che portò a una diagnosi opposta, ossia un carcinoma al pancreas con diffuse metastasi, che fondava una prognosi infausta e un’aspettativa di vita di pochi mesi. Anche l’esito del nuovo accertamento fu naturalmente trasmesso ai magistrati competenti che ordinarono l’immediata scarcerazione del detenuto, che avvenne il 3 marzo del 1982.

Nelle settimane successive, il dottor Ceraudo, che non riusciva  a perdonarsi un simile errore diagnostico, ma che non si capacitava di come fosse stata ordinata dal suo successore una Tac addominale – dopo che la relativa ecografia da lui effettuata non aveva segnalato nulla di anomalo – iniziò a conferire coi colleghi che avevano avuto in cura lo Sparti e che condividevano le sue perplessità; fino a che cominciarono a circolare voci che vi era stato uno scambio di cartelle cliniche.

L’uomo fu successivamente visitato in un altro ospedale, il San Camillo di Roma, dove però fu esclusa qualsiasi patologia cancerogena. Peccato però che di quel nuovo referto, che avrebbe evidenziato la falsità di quello precedente, non è rimasta traccia dato che la relativa cartella clinica era andata distrutta a seguito di un incendio.

Dalla data della sua scarcerazione, Massimo Sparti, dato per dead man walking, è sopravvissuto ventitré anni.

Possiamo permetterci di pensare che la sua “supertestimonianza” sia stata lautamente ricompensata? O, forse, sarebbe il caso di dire “comprata”?

(continua)

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