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Il dr. Ugo Sisti all’epoca dell’attentato era procuratore capo della Repubblica di Bologna; sotto la sua direzione stavano i PM incaricati dell’istruttoria del procedimento ed era stato lui a firmare gli ordini di cattura immediatamente successivi alla strage; alla fine del mese di ottobre, però, aveva assunto un importante incarico presso il Ministero di Grazia e Giustizia ed aveva così cessato di occuparsi dell’inchiesta.

Magistrato non schierato a sinistra, aveva sempre goduto di buone relazioni coi servizi segreti e l’ufficio che era stato chiamato a dirigere – la Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena – lo manteneva a stretto contatto con SISMI e SISDE.

Nel novembre del 1980, nonostante fossero ancora in piedi sia l’accusa di strage contro Furlotti, Pedretti e Calore sia i delitti associativi connessi alla strage – dove erano soprattutto coinvolti ambienti neofascisti romani – il quadro indiziario rimaneva debolissimo.

I giudici istruttori Gentile e Floridia, che avevano da poco assunto la direzione delle indagini, e si erano accorti, diversamente dai loro teorematici colleghi della Procura, della debolezza delle prove acquisite, domandarono così al dr. Sisti di metterli in contatto col SISMI, nella speranza che un servizio segreto potesse portare nuova linfa all’inchiesta.

La richiesta non era per niente ortodossa – ai Servizi era per legge precluso di svolgere compiti di polizia giudiziaria – ma l’importanza del fatto vinse le prime perplessità (così racconta Sisti) dell’allora comandante del Servizio militare, generale Giuseppe Santovito, il quale insieme col suo vice, generale Pietro Musumeci, finì per garantire collaborazione.

È in questo rapporto ‘collaborativo’ che si inserisce la vicenda del c.d. “depistaggio”.

Preceduto da ‘veline’ di provenienza del SISMI, che dalla fine del 1980 avevano iniziato a delineare un quadro eversivo con l’imminente inizio di una campagna di attentati (il tutto progettato, secondo quelle informative, dai capi riconosciuti dell’estrema destra, ossia Delle Chiaie, Freda, Tuti e molti altri) e soprattutto da un’informativa del 12 gennaio in cui si annunciava un imminente trasporto di armi ed esplosivi (poi denominata operazione “terrore sui treni”), il giorno 13 gennaio 1981, in uno scompartimento del convoglio Taranto-Milano, alla fermata di Bologna, venivano rinvenute e sequestrate alcune lattine di esplosivo – presumibilmente compatibile con quello usato per la strage alla Stazione – armi e due biglietti aerei, per voli previsti per la stessa serata, intestati a due nominativi stranieri, Martin Dimitris e Raphael Legrand.

Le informative del SISMI avevano dunque trovato un importante riscontro e la ‘pista nera’ una solida ed insperata conferma. Tanto più che, a partire dal successivo 6 febbraio, il SISMI informava con le sue solite veline che all’interno di questo progetto sovversivo doveva essere annoverato anche Giorgio Vale, poiché riconosciuto come acquirente dei biglietti aerei ritrovati sul treno.

Entrarono quindi in scena i NAR e il momento scelto non fu evidentemente casuale.

La notte precedente, a Padova, proprio Vale insieme con Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e altri membri di quel gruppo, al momento di recuperare alcune armi nascoste nel canale scaricatore, erano stati sorpresi dai Carabinieri; ne era seguito un sanguinoso scontro a fuoco, al termine del quale due militari erano stati uccisi e Valerio Fioravanti era rimasto gravemente ferito, tanto da dover essere abbandonato e poi affidato a un’ambulanza.

L’informativa dei Servizi su Vale, indicato poi immediatamente dalla stampa come facente parte del commando omicida di Padova, legava indissolubilmente il fatto accaduto la sera precedente al denunciato progetto eversivo, coinvolgendovi a pieno titolo i NAR.

Questa connessione appariva ancor più evidente dal fatto che su due voli con le medesime destinazioni e del medesimo giorno di quelli indicati dai biglietti aerei intestati ai due stranieri – risultati poi persone inesistenti – erano annotate le prenotazioni di tali Fiorvanti e Bottacin (quest’ultimo era il falso nominativo usato all’epoca da Gilberto Cavallini) che però non erano state utilizzate.

A questo elemento si legava la descrizione che, in una velina del SISMI del giorno 12 gennaio che faceva riferimento a una fonte riservata, si dava dei due titolari dei biglietti, Legrand e Dimitris, pienamente calzante con le persone di Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini (un volto dal colorito roseo, l’uno, e dalla pronunciata stempiatura, l’altro).

Inoltre, la stazione di partenza di quel treno – Taranto – rimandava immediatamente al covo che il gruppo aveva costituito in quella città come base per il progetto di evasione di Pierluigi Concutelli.

La vicenda fu subito inquadrata dagli inquirenti come conferma dell’ipotesi accusatoria iniziale.

Nel frattempo, erano state già acquisite le dichiarazioni di Massimo Sparti (su cui ritorneremo) il quale accusava Fioravanti e la Mambro di essere stati gli autori del massacro.

Ciò determinò l’emissione nei loro confronti del mandato di cattura per strage; fu la sezione istruttoria della Corte d’Appello di Bologna ad emetterlo, su reclamo dei pubblici ministeri di Bologna, che si erano visti respingere la richiesta da parte dei giudici istruttori Gentile e Floridia.

Tra le motivazioni a sostegno dell’ipotesi accusatoria vi erano anche le risultanze sopra descritte, ossia il coinvolgimento dei NAR, quindi di Mambro e Fioravanti, nel progetto eversivo culminato nell’operazione “terrore sui treni”, una ideale continuazione terroristica rispetto al massacro di Bologna.

Il rapporto collaborativo col SISMI a qualcosa era dunque servito. Qualcosa però andò storto.

Nel 1984, il giudice Domenico Sica, nell’ambito di un’inchiesta romana sui fondi neri del SISMI, ottenne da un anonimo maresciallo del Servizio di stanza a Vieste, Francesco Sanapo, una sconvolgente confessione: l’operazione “terrore sui treni” era stata una montatura a cui lui aveva partecipato.

Erano stati gli stessi generali Santovito e Musumeci a ordirla, confezionando veline false e progettando la messa in scena del ritrovamento di armi, esplosivi e passaporti sul treno.

In questa rappresentazione, il vil danaro la faceva da padrone. 850 milioni di lire erano state messe a disposizione per quella specifica operazione d’intelligence, dove evidentemente spiccava il pagamento delle “fonti” che avrebbero fornito tutto quel mare di informazioni.

Peccato però che le “fonti” non esistessero, visto che le informazioni erano state inventate di sana pianta. La condanna per peculato – e altri reati per altri episodi – emessa dalla magistratura romana contro i vertici del SISMI e contro il “faccendiere” Francesco Pazienza (diventato di casa in quei mesi nella sede di via XX Settembre) confermava che l’artefatta operazione “terrore sui treni” era stata, quantomeno, funzionale ad una distrazione di fondi a favore di chi l’aveva concepita.

Funzionale solo a quello? Pare di no, visto il rafforzamento della c.d. pista nera.

Ma ora che quel segmento d’inchiesta si era sbriciolato, che farne?

Nel romanzo di Orwell, 1984, vi è un termine ambiguo chiamato nerobianco, che consente ad ognuno di affermare l’esatto contrario del significato che la stessa cosa aveva un minuto prima, se ciò risulta conforme al pensiero voluto dal Socing

Magicamente, come nell’incubo orwelliano, il significato dell’operazione di inquinamento probatorio, diretto all’evidenza a costruire prove false (anche) contro i NAR, si trasforma in un tentativo di protezione dei NAR.

Come? Affermando, attraverso forzature teorematiche, che i vertici del SISMI – costituiti in effetti da massoni e piduisti –  avevano organizzato l’operazione su ispirazione di Licio Gelli.

La prova? All’inizio del mese di settembre del 1980, in un colloquio informale con un funzionario di polizia e del SISDE, Elio Cioppa – redattore del rapporto che aveva portato all’arresto di Furlotti e di altri estremisti di destra romani poche settimane prima – il maestro venerabile aveva affermato che gli inquirenti stavano sbagliando tutto e che la pista era “internazionale”.

Magicamente, come un fenomeno di osmosi logico-interpretativa, era divenuto “internazionale” anche il falso progetto eversivo, visto che ne avrebbero fatto parte esponenti terroristi non italiani e che stranieri erano i passaporti ritrovati sul treno.

Che in quel finto progetto vi fossero stati inclusi Delle Chiaie, Freda e molti altri estremisti di destra italiani, tra cui i vertici di Terza Posizione, via via citati nelle false informative, perdeva ogni rilevanza nella valutazione che la magistratura bolognese intendeva imporre, a mo’ di “nerobianco”, nel linguaggio della logica probatoria e processuale.

Magicamente, un’operazione volta a incastrare anche i NAR diventava, per i pubblici ministeri di Bologna e per i due nuovi giudici istruttori, nominati al posto di quelli precedenti, un’operazione di “depistaggio”, ispirata da Gelli e volta a sviare le indagini verso inesistenti piste internazionali, a tutto vantaggio di Fioravanti & c.

Et voilà.

(continua)

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