“Sono stati i fascisti”. Il 3 ed il 4 agosto 1980, i principali quotidiani già avevano iniziato a titolare la verità di regime, quella ammessa, consentita, buona per tutte le stagioni.

Il “la”, accordato dai vertici dello Stato – l’allora premier Cossiga in primis che in Parlamento, già pochi giorni dopo, aveva indicato negli ambienti di estrema destra la pista da seguire –  coonestò la direzione che le indagini della Procura e poi dell’Ufficio Istruzione bolognesi avrebbero immediatamente intrapreso.

È storia abbastanza nota la raffica di arresti che in tutta Italia, nei mesi successivi, colpì gli ambienti di estrema destra.

Merita menzione, però, il primo vero depistaggio di quell’inchiesta. Proveniente dal vicedirettore del Sisde (il servizio segreto civile), Silvano Russomanno che, in carcere per aver rivelato i contenuti dell’interrogatorio del pentito delle BR Patrizio Peci, dichiarò che un compagno di detenzione, tal Piergiorgio Farina, gli aveva riferito confidenze ricevute qualche mese prima in carcere da parte di Dario Pedretti; questi avrebbe indicato Francesco “Chicco” Furlotti, un giovane simpatizzante di destra, come fornitore dell’esplosivo e preparatore dell’attentato che Pedretti e Sergio Calore avrebbero organizzato per l’agosto successivo come “degna celebrazione” dell’anniversario della strage del treno Italicus, avvenuta il 4 agosto 1974.

Arrestato con l’accusa di strage – in concorso con Pedretti e Calore già in carcere – Furlotti fornì un alibi a prova di ferro; il 2 agosto e nelle settimane precedenti non si era mosso da Fasano, in Puglia, dove aveva affittato un locale notturno, preso in gestione per la stagione estiva; una valanga di testimoni potevano confermarlo e, infatti, interrogati, lo confermarono.

Questo non bastò a far ritenere innocente e a liberare Furlotti che, in quel preciso momento, era l’incarnazione del teorema fascista. Farina, nei mesi successivi, incassò un “premio” consistente: dopo aver ottenuto il trasferimento in un carcere diverso, aveva iniziato a reclamare “aiuti”; a dirlo fu il padre, persona integerrima – al contrario del figlio, che stava scontando una lunga condanna per violenza carnale ai danni della fidanzata del presentatore Lelio Luttazzi e di calunnia nei confronti di Luttazzi stesso, accusato dal Farina di essere stato l’istigatore della violenza ai danni della donna  – il quale indicò in 100 milioni di lire l’entità della somma sborsata dallo Stato, di cui 30 a lui personalmente recapitati in contanti, contenuti in un sacchetto per il pane, consegnatogli da una persona in divisa e destinati al testimone per “sostenere” l’onere di quell’importante accusa. 

I testimoni veri non creduti. Il testimone falso foraggiato. I pubblici ministeri inchiodati al loro teorema.

Fu il giudice istruttore, Aldo Gentile, a scarcerare Furlotti, dopo un anno di detenzione, per assenza di indizi e a dispetto della contraria opinione della Procura bolognese, che non voleva mollare l’osso, al punto da impugnare il provvedimento di liberazione affermando che Furlotti, da Fasano, avrebbe potuto anche arrivare a Bologna con un aereo privato…

Questo l’incipit del procedimento per la strage. Questo il metodo, la mentalità, l’approccio giudiziario. C’era da aspettarsi qualcosa di giusto da quei signori? La risposta sta nelle cose.

Ma il bello – si fa per dire – doveva ancora arrivare. Intanto, sempre in quell’anno 1980, a settembre partiva dal Libano un secondo depistaggio.

A confezionarlo, questa volta, era Abu Yjad, importante esponente dell’estremismo palestinese, che indicava nei neofascisti italiani addestrati nei campi falangisti cristiano-maroniti i responsabili della strage.

A trasmettere l’informazione di Abu Yjad era stata Rita Porena, con un’intervista al palestinese pubblicata prima dal Corriere del Ticino e poi ripresa in Italia dal quotidiano filocomunista Paese Sera, per cui ella lavorava. Le relative indagini, condotte dal giudice istruttore Gentile, che si recò in Libano in due occasioni, non portarono a nulla e, all’epoca, quella rivelazione fu liquidata come una “operazione di propaganda” contro la fazione nemica cristiano-maronita.

Giornalista di estrema sinistra, Rita Porena era considerata molto addentro alle “cose” palestinesi, e per questo era in stretto contatto col “capo-centro” del Sismi, il servizio segreto militare, a Beirut, il colonnello Stefano Giovannone.

Le sue “entrature” riguardavano soprattutto l’organizzazione marxista-leninista FPLP – Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina – e  un suo esponente di spicco, Bassam Abu Sharif, famoso, fra le altre cose, per essere stato uno dei comandanti dello spettacolare dirottamento di cinque aerei avvenuto nel settembre 1970, fatti atterrare in un aeroporto giordano.

In realtà, però, lei “stava” con quella fazione, agiva per essa, aveva sposato la sua causa ed era per questo, di fatto, divenuta il canale privilegiato a Beirut fra il mondo palestinese e le rappresentanze italiane – Ambasciata, servizi di sicurezza.

Questa stretta liaison fra la Porena e il FPLP, alla luce delle conoscenze odierne, fornisce un quadro ben diverso rispetto alla pretesa mera “finalità propagandistica” locale, all’epoca sbrigativamente attribuita alle dichiarazioni di Abu Yjad.

(continua)

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