Le ultime previsioni degli impatti economici del Covid-19 hanno segnano un pesantissimo -11.2% per l’Italia sul PIL 2020.

Tuttavia, non è solo questo il dato più preoccupante, ancor più grave è la ripresa più lenta dell’Italia, stimata nel 2021 al 6.1%, rispetto a quella delle altre nazioni europee.

D’altra parte, per l’Italia, in un sistema rigido come quello della UE e dell’Eurozona, non era possibile immaginare nulla di diverso da un impatto asimmetrico della crisi. Ciò significa che, essendo l’economia italiana di fatto sottratta ai funzionamenti del libero mercato – vedi un regime di cambi flessibili e la capacità di condurre una politica fiscale autonoma di ampio respiro – non si dispongono di strumenti efficaci per arginare la crisi.

Quel differenziale di -5% circa di PIL tra caduta del 2020 e ripresa del 2021, si avvia cioè a divenire una perdita stabile di ricchezza dell’economia reale, un gap di fatto non più colmabile nel tempo. Basti pensare che, a tutto il 2019, l’Italia, a forza di svalutazioni del mercato interno e austerità, non aveva ancora riguadagnato il PIL del 2007.

In questo scenario, facendo due conticini, anche il Next Generation EU, ovvero la nuova veste sotto cui è in discussione il Recovery Fund, risulterebbe, anche nella sua versione massima di dotazione di 750 mld (di cui 500 mld come trasferimenti e 250 mld come prestiti), insufficiente per arginare l’impatto della crisi.

In primo luogo, va sottolineato che, verosimilmente, date le tempistiche di negoziazione dell’UE, non si vedrà comunque alcunché prima dell’inizio del 2021. I fondi si ipotizzano infatti concessi nella quadra del Multiannual Financial Framework, ovvero il budget della UE 2021-2027, con le principali erogazioni nel periodo, dopo un avvio stentato, nel triennio 2022-2024.

Questo significa che, a partire da questo autunno, l’economia italiana si potrebbe avviare verso un durissimo inverno 2020-2021, dal quale un numero significativo di imprese non riuscirà a riprendersi.

I fallimenti e il dissesto dell’economia reale potrebbero, con estrema probabilità, portare in questo periodo ad una distruzione della stessa capacità produttiva potenziale. In parole povere, il motore di molte attività imprenditoriali, una volta spento, non potrà più essere riacceso, neanche con i promessi fondi europei (si possono concedere finanziamenti ad un’impresa chiusa?).

Anche dal punto di vista quantitativo la risposta del Next Generation EU (sempre concedendo che dalle negoziazioni ne esca il massimo di quanto richiesto), sembra non essere abbastanza capiente per gestire la crisi. Una contrazione del PIL dell’11% significa una perdita di ricchezza dell’Italia di circa 180 mld. Se venisse confermato che all’Italia possa essere concessa una quota dei finanziamenti europei del 20%, staremmo parlando di circa 150 mld.

Di questi, scorporando quanto dovuto come rimborso sui prestiti – e i prestiti europei, antergati al debito pubblico, ricordiamolo, si rimborsano sempre solo con un consolidamento fiscale, oppure ipotizzando un effetto ricardiano di invarianza dell’effetto da aumento della spesa a favore dell’economia reale, dal momento che questi trasferimenti andranno riassorbiti con nuova pressione fiscale in un periodo relativamente breve – resterebbero così 100 mld di trasferimenti a fondo perduto.

Fondo perduto che, in realtà, significa ampliamento del MFF, ovvero di una crescita del bilancio UE (a scapito delle competenze fiscali nazionali), che si fonda sui versamenti fatti a Bruxelles da parte dei singoli Stati Membri. Soldi nostri che diamo alla UE affinché ce li rigiri come “gentile concessione” e prendendosi nel frattempo le chiavi di casa nostra.

Sicuramente la ripartizione sembra destinata ad essere in ogni caso asimmetrica a favore delle nazioni più colpite (non si chiederanno nuovi contributi all’Italia per 100 mld, ma verosimilmente qualcosa attorno ai 50-75mld).

Insomma, tirando le fila del discorso, troppo poco e troppo tardi.

Del gap di 180 mld di aiuti effettivi all’Italia ne dovrebbero arrivare, spalmati negli anni, appena 25-50. Senza svalutazione del cambio o senza nuova spesa (e con un saldo primario già eroso dall’abbattimento del gettito fiscale, sappiamo già che non ci sarà nuova spesa), il lento declino dell’Italia, avviata a confermarsi ultima colonia e deserto industriale dell’edificando stato federale europeo, sembra cosa certa.

In questo contesto, gli italiani dovrebbero iniziare a chiedere alla propria classe dirigente: fino a quale costo si potrà mantenere in piedi una struttura, quella della UE, priva dei naturali meccanismi di aggiustamento del mercato?

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