Non appena presentato, il fantasmagorico piano della task-force londinese del manager Vittorio Colao, sembra già trapassato nel dimenticatoio della politica, superato dagli ancor più fantasmagorici “Stati Generali”.

In ogni caso vogliamo pensare che se il governo ha commissionato a questi manager la predisposizione di “linee guida” per il rilancio dell’Italia post-crisi Coronavirus, almeno una sfogliata alle slide partorite con tanto affanno se la potrà concedere.

Non tutto per carità è da buttare, alcune proposte sono utili e di buon senso, alcune sono dei meri correttivi ai decreti che il governo ha prodotto in maniera rabberciata in questi mesi.

Un esempio su tutti è l’aver previsto forme di moratorie sui debiti bancari per le aziende classificate in bonis, per quelle con procedure concorsuali attive, ma non per quelle classificate a inadempienze probabili, ovvero la vasta platea di aziende in difficoltà ma che ancora non hanno il piede nella fossa del fallimento o della liquidazione (i soggetti quindi che più avrebbero necessitato di misure di sostegno).

Tuttavia vi sono ampie zone grigie su cui possono abbondare le perplessità.

Si introduce, ad esempio, il suggerimento di semplificare la procedura di vendita di aziende partecipate dallo Stato, tentativo di liquidare le ultime attività industriali di pregio, per di più in una fase recessiva in cui i potenziali acquirenti potrebbero fare prezzi di saldo.

Abbondante spazio è dedicato alla semplificazione e all’incoraggiamento delle procedure di aumento di capitale sociale. Similmente si suggerisce “l’anno bianco fiscale” estendendo le proroghe delle scadenze fiscali per il 2020. Entrambe le misure sembrano interessanti ma si scontrano con evidenti problematiche macroeconomiche.

La prima, con l’evidenza che l’impresa italiana, pur notoriamente in crisi, non ha tuttavia seri problemi di patrimonializzazione (le nostre imprese hanno meno debiti delle concorrenti straniere), quanto seri problemi di redditività e sostenibilità economica, difficoltà ad operare con elevate marginalità, insomma difficoltà a fare profitti.

In tale contesto di produttività stagnante, con un mercato interno con una domanda aggregata in costante calo e un mercato estero la cui ripresa resta incerta, la difficoltà a mobilizzare il risparmio e i patrimoni privati verso forme di finanziamento delle imprese non sarà risolta con gli interventi burocratici proposti, per semplice fatto che, se le imprese hanno scarsa redditività, così sarà scarsa la propensione all’investimento.

Discorso simile per le proroghe fiscali. Data la severità della recessione che si va a consumare nel 2020, non sarà sufficiente trasferire più in avanti le scadenze fiscali, come non sarà sufficiente semplicemente concedere garanzie sui nuovi prestiti bancari: i macigni che non si è in grado di sopportare oggi non saranno sopportabili neanche domani. Manca una vera e propria proposta di espansione fiscale per rilanciare la stagnazione dell’economia italiana,. Una manovra simile sarebbe stata necessaria prima del Coronavirus, oggi diviene ineludibile.

Ci sono poi gli aspetti che diremmo quasi “di costume” e che tradiscono la mentalità da tecnocrati dei redattori del pacchetto di slide.

C’è ad esempio la solita litania contro l’uso del contante, che sarebbe principale veicolo dell’evasione fiscale. Simpaticamente però non c’è una parola sulla sistematica e miliardaria opera di elusione fiscale messa in atto dalle più grandi aziende, tanto estere – come i giganti del web Amazon, Google, Facebook, etc – quanto nostrane -come Exor-FCA (e annessa GEDI, holding del gruppo Repubblica-L’Espresso), Mediaset, Ferrero, Luxottica, Illy, Telecom Italia, etc. – che sfruttano la comoda presenza di paradisi fiscali all’interno del mercato unico europeo.

Evidentemente si ritiene modesto il peso di queste aziende per gli ammanchi nei conti pubblici e comunque non paragonabile con il danno sociale fatto dalla mitica casalinga di Voghera che, assurdamente, non è disposta a pagare una commissione ad American Express per avere una carta Gold e si ostina a pagare il panettiere in contanti.

Sulla stessa falsariga i peana per il sostegno all’economia “green” nell’ottica delle magnifiche sorti e progressive del sol dell’avvenire del prossimo venturo Green New Deal della Commissione Von Der Leyen, atteso evento palingenetico dell’umano incivilimento che, entro la scadenza del prossimo budget europeo, sarà in grado di aver mutato la temperatura con la quale l’astro solare scalda il suo sistema e la nostra Terra. Non entriamo, poiché non è questa la sede, nei dettagli di una polemica di natura gretina; resta però da osservare che è ben singolare presentare gli investimenti “green” come occasione di rilancio per l’Italia.

Tra i tanti pesi che affliggono l’industria italiana, vi è notoriamente un costo della bolletta energetica ben più alto di quello che si paga in Francia o Germania. Tale peso diviene, per alcune industrie ad alto consumo energetico, – vedi in particolare il settore siderurgico e le sorti dell’acciaio italiano appese al filo dell’ILVA di Taranto – che non si trovano neanche a competere contro altre aziende europee, ma contro una concorrenza cinese, indiana, turca, etc…, semplicemente insopportabile.

Gli investimenti “green” li si può anche considerare (se proprio ci si crede) belli e doverosi, ma non li si può considerare economicamente efficienti, visti gli alti costi di realizzo e la scarsa capacità di copertura di domanda energetica, specialmente in questa fase di mercato in cui il mercato degli idrocarburi è sprofondato e una scelta strategica per l’Italia dovrebbe perciò portarci ad approfittare dei prezzi bassi per farne scorta.

Guarda caso poi le principali aziende produttrici di pale eoliche, ossia quegli ecomostri che deturpano il paesaggio (recente notizia è la brillante idea di piantare mega pale eoliche davanti alla riviera romagnola, ottimo volano per incentivare la provatissima industria turistica), sono generalmente industrie tedesche (ma sarà anche questo un caso).

Dulcis in fundo il pacchetto di slide del Dr. Colao, si chiude con un’ampia sviolinata genderista. Ce n’è per tutti, si va dall’idea di inserire corsi scolastici per “l’abbattimento dei pregiudizi di genere” alla definizione del mercato del lavoro italiano come arretrato, poiché ci sono ancora poche donne che lavorano; evidentemente, in un mercato del lavoro con il 10% di disoccupazione ad inizio anno (e a salire chissà fino a quanto a fine anno), il problema sta nell’avere un’offerta aggregata di lavoro ancora troppo scarsa.

Sulle slide viene fatto un confronto diretto tra Italia e Svezia, presentando quest’ultima come modello per l’abbattimento degli “stereotipi di genere”. Evidentemente si ritiene il modello di famiglia svedese – ovvero la non-famiglia – in cui i figli crescono soli, affidati più alle cure del welfare pubblico che a quelle di una madre, e in cui gli anziani muoiono similmente soli e dopo settimane vengono raccattati da apposito servizio pubblico, un modello avanzato e luminoso da cui prendere esempio.

Nessuna parola sulla tragica piega della curva demografica italiana, nessun riferimento al tragico invecchiamento (e a tutti i relativi costi economici e sociali) e spopolamento dell’Italia (evidentemente sono cose che si possono risolvere a colpi di regolarizzazioni di centinaia di migliaia di clandestini), nessuna necessità di incentivare la famiglia e la maternità. Insomma, un programma coi fiocchi.

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