Augusto César Sandino (18.5.1895 – 21.2.1934 )

Il 20 luglio 1979 i guerriglieri del FSLN – Frente Sandinista de Liberación Nacional,definitivamente costituitosi nel 1962 con l’unione di vari gruppi armati – entravano a Managua, la capitale nicaraguense, assumendo il potere in una Junta composta anche da esponenti dell’opposizione liberal-conservatrice e ponendo fine all’ultraquarantennale dominio della dinastia Somoza.

La classe dirigente del FSLN era d’ideologia marxista-leninista, grazie alla preparazione militare e politica ricevuta a L’Avana nei primi anni sessanta, ma cercò di coniugarla a un’idea nazionalista, in chiave anche tattica, ispirandosi alla figura dell’eroe popolare, venerato nel paese, Augusto César Sandino.

D’origine contadina, questi aveva assunto il comando di un gruppo arruolatosi nella fazione liberale nella guerra civile che, dal 1925, la contrappose a quella dei conservatori; dopo aver rifiutato l’accordo di pace firmato nel 1926 e non accettando il governo del conservatore Adolfo Díaz e la presenza delle truppe americane, alla testa del suo Ejército Defensor de la Soberanía de Nicaragua (EDSN) lanciò la prima azione militare proprio contro un presidio di Marines, nella provincia di Nueva Segovia, al nord del paese, una zona montagnosa confinante con l’Honduras che resterà poi la sua roccaforte per tutto il periodo della guerra.

Quella presenza militare risaliva al 1912, successivamente al rovesciamento del governo del liberale José Santos Zelaya, avvenuto nel 1909, il quale aveva manifestato propositi federalisti regionali (muovendo guerra all’Honduras e installandovi un governo amico) e rifiutato di riconoscere l’esclusiva nordamericana sui diritti di costruzione del canale (aveva iniziato anche trattative coi governi prussiano e giapponese). Gli Stati Uniti, già decisi sulla scelta di Panama, intendevano invece impedire che in Nicaragua sorgessero pericoli di concorrenza al loro progetto; ritiratesi nel 1925, le forze militari statunitensi erano però ritornate l’anno successivo in occasione del conflitto interno.

La visione politica di Sandino poteva riassumersi in un patriottismo ispano-americano e in una ideologia, non priva di tratti teosofici, che lo portò ad ipotizzare una sorta di socialismo utopista non materialista; non si dichiarò mai comunista o marxista leninista, né mai concepì, in realtà, un progetto politico compiuto.

Orgoglioso del suo sangue indio, non mancava di rendere omaggio anche al popolo spagnolo: “La Spagna ci ha dato la sua lingua, la sua civilizzazione e il suo sangue. Noi ci consideriamo come indio-spagnoli americani”. Nell’agosto del 1928 scrisse infatti una lettera a tutti i presidenti latinoamericani, invocando – in maniera certamente velleitaria – l’unione degli Stati per la costituzione della Patria Grande sognata da Bolivar, capace di affrancarsi dall’influenza della potenza anglosassone.

Le pesanti interferenze che dalla metà del XIX° secolo gli Stati Uniti iniziarono a esercitare nel mondo latino americano avevano provocato un diffuso sentimento anti-imperialista, che attraversava frontiere e posizioni ideologiche. Fu però il COMINTERN a cercare di trarre profitto da questo spazio politico, creando nel 1925 la Liga Anti-imperialista (LADLA) che, alla pari del Partito Comunista Messicano (PCM), diede così il suo appoggio alla rivolta di Sandino. Se da un lato garantiva a lui un respiro internazionale, dall’altro forniva al movimento comunista un’occasione per salire alla ribalta con la difesa di una causa che godeva di ampie simpatie. Fu, a questo scopo, creato un comitato, il MAFUENIC (acronimo di ‘fuori le mani dal Nicaragua’) composto da sigle quasi tutte riconducibili al COMINTERN anche se si cercò di dare alla struttura un’apparenza d’indipendenza politica al fine di radunare il più ampio consenso possibile.  

Se il comitato e i comunisti messicani s’impegnarono a fondo nella campagna di propaganda, anche arruolando volontari nelle file sandiniste, l’atteggiamento del SRI e del COMINTERN non fu però così caloroso. La sua sezione caraibica diffidava di avventure rivoluzionarie temendo la reazione statunitense e, inoltre, il VI° congresso dell’Internazionale comunista del 1928 aveva stabilito la strategia della lotta di classe, quindi il divieto di qualsiasi accordo con movimenti socialdemocratici – definiti “socialfascisti”.

La superiorità militare delle forze governative e dei Marines e gli scarsi aiuti ricevuti determinarono Sandino a spostarsi temporaneamente in Messico, d’accordo col suo presidente Emilio Portes Gil, nell’illusione che lì potesse ottenere il necessario appoggio, come era avvenuto durante la guerra civile nicaraguense, quando la fazione liberale aveva goduto di rifornimenti di danaro e armi da parte messicana.

Giunto in Messico insieme con una cinquantina dei suoi nel giugno del 1929, Sandino trovò una situazione profondamente mutata. Il governo nei mesi precedenti aveva represso duramente una sollevazione armata organizzata dal PCM, dichiarato illegale, aveva rotto le relazioni diplomatiche con l’URSS ed era in procinto di ricucire le relazioni con gli Stati Uniti dopo la crisi intervenuta durante la presidenza di Plutarco Elías Calles.

Sandino dovette quindi gestire un duplice difficile rapporto, da una parte col governo messicano che li aveva ricevuti ma che, al di là di questo, non manifestava nessuna intenzione di fornire aiuti e dall’altra col PCM che, forte dell’appoggio che aveva effettivamente prestato alla sua lotta e al tempo stesso diffidente per il contatto che il comandante nicaraguense aveva allacciato col presidente Portes Gil (notizie giornalistiche, probabilmente infondate, rilanciate anche dalla stampa filocomunista, avevano denunciato che questi avrebbe corrotto il Nicaraguense con 60.000 dollari per trattenerlo nel paese e fargli abbandonare la lotta), pretendeva dichiarazioni di allégéance alle lotte del movimento comunista e, in più, di condanna del governo che lo ospitava.

Fu in questo momento di enorme debolezza che Sandino s’impegnò col PCM a pronunciarsi contro la politica del governo messicano, a partecipare ad un giro di propaganda in Europa e ad accettare il piano di lotta della Lega anti-imperialista, ossia a una radicalizzazione sul piano ideologico. Era del tutto evidente che le pressioni del PCM non si fondavano sull’asserita corruzione di Sandino – che dopo l’accordo fu bollata come falsa dalla LADLA, et pour cause – ma sul cambio strategico della politica del PCUS e del COMINTERN.

Restava però il problema dei costi del rimpatrio e per questo Sandino, che aveva promesso di rilasciare le richieste dichiarazioni solo dopo la sua uscita dal Messico – al fine di evitare le prevedibili reazioni repressive del governo, mentre il PCM le pretendeva immediatamente – e in mancanza di concreti aiuti a tal fine provenienti dal movimento comunista, si risolse ad accettare quelli che gli furono forniti da alcuni governatori – e forse anche dal governo che non intendeva più permettersi la permanenza di ospiti così ingombranti – ai quali, nel giro di qualche mese, riuscì a strappare qualche migliaio di dollari garantendosi il ritorno in patria.

Le trattative con le autorità messicane provocarono le ire dei comunisti e del movimento anti-imperialista che, dopo aver assicurato al comandante nicaraguense la più ampia solidarietà contro le accuse di corruttela, cambiarono nuovamente registro. Nonostante le spiegazioni del comandante dell’EDSN sulle sue ragioni di sicurezza e la dichiarata intenzione di ritornare in Nicaragua, come poi fece, per continuare la lotta armata, il PCM prima e la LADLA poi, ripresero le accuse di tradimento, di filoborghesismo e così via.

Anche il salvadoregno Farabundo Martí, uomo del COMINTERN e del SRI, che dal Nicaragua aveva seguito Sandino in Messico e ne era diventato il più attivo collaboratore, entrando nell’EDSN in una funzione comunque di vero e proprio commissario politico restando quindi legato al movimento e alla strategia comunista, dopo la rottura definì il suo ex comandante “un caudillo liberale piccolo-borghese che voleva governare con i metodi semicoloniali e semifeudali”.

Dal suo ritorno in patria, Sandino perse ogni appoggio internazionale e fu ignorato dagli ambienti intellettuali da cui negli anni precedenti era stato coccolato.

L’azione dell’EDSN, allentatasi nell’ultimo anno, riprese vigore ma rimase confinata soprattutto nella provincia di Nueva Segovia espandendosi con rare incursioni fino alla provincia di León, al confine nord della provincia di Managua o alle immediate coste oceaniche settentrionali del paese.

L’elezione del liberale Juan Batista Sacasa alla fine del 1932 costituì il prologo della tregua e degli accordi di pace, firmati all’inizio del mese di febbraio del 1933, con il disarmo dell’EDSN e l’amnistia ai suoi combattenti mentre proprio nei primi giorni dell’anno le truppe statunitensi abbandonavano il territorio e Anastasio Somoza García, della fazione liberale, assumeva la carica di comandante in capo della Guardia Nacional.

Fu questi a ordinare la fucilazione di Sandino nel febbraio del 1934, catturato da alcuni militari mentre usciva dal palazzo presidenziale. A motivare questa decisione stava verosimilmente il timore di dover fare i conti con un possibile concorrente che godeva di ampia popolarità.

In occasione della firma degli accordi di pace, il COMINTERN si era fatto nuovamente vivo dedicandogli, nel febbraio del 1933, nella sua rivista “Correspondance Internationale” un articolo intitolato “Il tradimento di Sandino”, così definendolo: “piccolo borghese che incarna il tipo del vero caudillo, piccolo capo dittatore.

Parole che, all’indomani della presa del potere del 1979, i neo-sandinisti dimenticheranno. Gli appoggi economici e militari che, grazie a Cuba, ottennero da URSS, Germania Orientale Bulgaria e Cecoslovacchia valevano ben più del rispetto della memoria di un autentico rivoluzionario; che si ribellò alla tutela nordamericana ma che neppure avrebbe tollerato quella del blocco sovietico.

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