LIVERPOOL, ENGLAND - NOVEMBER 25: The match balls are seen during the UEFA Champions League Group D stage match between Liverpool FC and Atalanta BC at Anfield on November 25, 2020 in Liverpool, England. Sporting stadiums around the UK remain under strict restrictions due to the Coronavirus Pandemic as Government social distancing laws prohibit fans inside venues resulting in games being played behind closed doors. (Photo by Jon Super - Pool/Getty Images)

Archiviato il campionato 2020-21 di calcio, probabilmente il campionato più singolare e di crisi che il calcio italiano ricordi dai tempi del dopoguerra; in un’Italia prostrata dal Covid, dalle chiusure senza fine, da una crisi economica più grave di quella dei mutui subprime e di quella dei debiti sovrani, il mondo del calcio – che è e resta il primo spettacolo di intrattenimento in Italia e così anche una parte significativa della nostra economia, oltre che ovviamente una fonte di appartenenza e radicamento per le varie tifoserie – non se la passa meglio.

Stadi chiusi, incassi da vendite commerciali in picchiata, bilanci in rosso, scarsa competitività internazionale dei nostri club.

Il Covid, lo sappiamo, ha più che altro esacerbato problemi già esistenti nel mondo del pallone, visto il crescente distacco della nostra Serie A – negli anni Novanta “il campionato più bello del mondo” – dalle altre leghe europee, sia in termini di giro d’affari che di risultati e di attrattività sportiva.

Non ci sembra illecito richiedere un grande piano nazionale, promosso direttamente del governo in collaborazione con FIGC e Lega Calcio, per il rilancio di questo grande circuito.

Il maldestro e biasimevole tentativo di alcuni grandi club di organizzarsi in modo oligarchico nella Superlega attesta peraltro un malessere diffuso, una difficoltà complessiva del sistema di auto-sostenersi, alla quale, almeno i club più prestigiosi, hanno tentato di reagire con una soluzione biecamente anti-concorrenziale e anti-sportiva.

La logica del piano di rilancio deve essere, invece, quella di rilanciare il settore nel suo complesso, mantenendo l’organicità di un campionato bilanciato tra provinciali e grandi blasoni.

Un primo suggerimento sul come fare ci può venire dalla Germania, i cui grandi club (Bayern e Borussia Dortmund), pur invitati alla Superlega, hanno cordialmente declinato l’offerta, facendo globalmente una figura decisamente migliore.

Come mai le tedesche hanno rifiutato?

Principalmente per via del principio dell’azionariato diffuso, con il 50% +1 delle azioni delle squadre professionistiche detenute dai tifosi.

Riteniamo che tale modello di gestione possa e debba essere importato anche in Italia. Il modello di gestione mecenatistica all’italiana, col grande patron che si compra una squadra di calcio e vi dilapida una fortuna per coprirsi di gloria e di onori, purtroppo, per quanto dotato di un suo romanticismo e per quanto abbia portato lustro al calcio italiano (si pensi al Milan di Berlusconi o all’Inter di Moratti), sembra definitivamente tramontato.

Le soluzioni per il momento adottate come ripiego al mecenatismo, salvo eccezioni, dalla quotazione in borsa alla vendita a fondi d’investimento o imprenditori stranieri che a malapena sanno pronunciare il nome della propria squadra, francamente non sembrano particolarmente di successo e sicuramente aumentano il senso di distacco e di sfilacciamento tra club e piazza di appartenenza.

L’operazione potrebbe prevedere il rimborso del 51% del capitale sociale delle società agli attuali proprietari (con delisting per le società quotate), i quali conservando il 49% non uscirebbero di scena e resterebbero chiaramente gli azionisti di riferimento e d’indirizzo per le rispettive squadre.

Con il ritiro e il rimborso del 51% e successiva messa in vendita delle quote di partecipazione ad un azionariato popolare, si potrebbero aprire notevoli (e insperate) opportunità di ricapitalizzazione delle società (eventualmente tramite scambio non alla pari e con vendita con leggero sovraprezzo iniziale presso il pubblico).

Dopo il fronte proprietario, resta il grande tema dei ricavi, sul quale osserviamo un continuo arretramento delle italiane rispetto alla concorrenza europea.

Considerando che i ricavi delle società provengono essenzialmente da diritti televisivi e incassi stadio, è qui che bisognerà agire.

Per quanto riguarda i diritti televisivi, il governo si potrebbe far promotore del progetto, già immaginato da alcuni, della creazione di una TV-Lega Calcio, ovvero un canale televisivo di proprietà della Lega, gestito e posseduto pro-quota da tutti i club.

La soluzione permetterebbe di internalizzare i ricavi da diritti tv, eliminando la quota di profitto che ovviamente i vari SKY, Dazn, etc… trattengono per sé.

Si eliminerebbe, inoltre, per le squadre l’incertezza sulle aste annuali sui diritti, per i tifosi l’incertezza data dal dover cambiare, quasi anno per anno, il tipo di abbonamento.

Sul versante degli stadi è ormai evidente che la proprietà comunale degli impianti sia largamente inefficiente, sia per i comuni, che non dispongono delle risorse finanziarie, delle capacità e degli stimoli per migliorare gli stadi, che per i club, che si trovano a dover giocare in impianti vetusti, con scarsa capacità reddituale.

Sempre il governo dovrebbe farsi parte attiva per stimolare i comuni ad intraprendere piani di cessione e di vendita degli stadi alle società.

I piani di cessione potrebbero essere svolti tramite acquisti finanziati con mutui straordinari aperti dalle squadre presso finanziatori quali SACE-CDP, con garanzia statale e tassi agevolati (le squadre permuterebbero i costi finanziari degli affitti in piani di ammortamento di un indebitamento ottenuto a condizioni agevolate).

A fronte della concessione della finanza agevolata, le squadre dovrebbero predisporre quantomeno dei piani per la riqualifica e l’ammodernamento degli impianti stessi (fatta salva la destinazione d’uso per gli impianti storici, proposte del tipo “abbattiamo San Siro” sono giustamente inascoltabili).

Entrambi gli investimenti, quelli in conto capitale per la costituzione del canale tv di Lega e quelli per acquisto e rifacimento stadi, investimenti chiaramente una tantum e straordinari, andrebbero pienamente defiscalizzati.

Si potrebbe agire anche sul versante dei costi, notoriamente esplosi per gli ingaggi dei calciatori. Una soluzione potrebbe essere fissare dei massimali per gli ingaggi; d’altra parte già nella Formula 1, dove sicuramente non sono trascurabili le spese per ingaggi di piloti e team e di tecnologia sulle macchine, le scuderie hanno dei budget cap prefissati. In questo senso la FIGC e il governo dovrebbero farsi promotori presso la UEFA di una regolamentazione più stringente a livello europeo, per diminuire la distanza tra campionati maggiormente regolamentati e quelli invece finanziariamente più lassisti.

Auspicabile sarebbe anche una revisione dei vincoli sui giocatori stranieri. Come noto a causa dell’infame sentenza Bosman del 1995 pronunciata dalla Corte di Strasburgo, di fatto non è possibile mettere vincoli al numero di stranieri comunitari in rosa, mentre permane solo la blanda possibilità di limitare il numero di giocatori extracomunitari.

Tale logica va sfidata apertamente. Non è possibile vedere squadre di calcio della Serie A con appena una manciata di italiani in rosa.

Vanno riaffermate le identità e i legami con il territorio, promuovendo i settori giovanili e il reclutamento di giovani talenti direttamente sulle piazze di riferimento.

D’altra parte, vediamo come alcune felici eccezioni, come il celebre caso dell’Athletic Bilbao e della sua rosa a prevalenza basca, siano capaci di creare club con un senso di radicamento e attaccamento ben diverso rispetto a quello di club composti sostanzialmente da mercenari in balia degli avvisi dei rispettivi procuratori.

L’obbligo, per esempio, di avere una rosa composta quantomeno in maniera paritaria tra italiani e stranieri, comporterebbe naturalmente la propensione delle squadre ad investire sui propri settori giovanili (con ricadute positive per i territori, con l’apertura di nuovi centri sportivi, campi di provincia, etc…) e la riduzione, invece, del ruolo di agenti e procuratori ai quali attualmente è quasi totalmente demandata la funzione di ricerca di nuovi talenti.

Infine, la Coppa Italia, la quale ancora fa fatica ad affermarsi come competizione di peso, rappresentando di fatto una risorsa non sfruttata. Il modello per rilanciare la competizione potrebbe essere quello dell’FA Cup inglese, dove le provinciali giocano sempre in casa, in modo da riequilibrare la competizione.

Inoltre, si potrebbe ipotizzare che l’Italia si faccia promotrice a livello europeo di una reintroduzione della Coppa delle Coppe, giocata dalle squadre che abbiano avuto accesso alle fasi finali delle varie coppe nazionali (magari col vincolo di non sovrapposizione con la Champions League). Giocare la Coppa Italia per giocarsi anche il posto in una competizione superiore rilancerebbe chiaramente l’interesse per la stessa. La nuova competizione potrebbe di fatto sostituirsi alle varie Conference League ed Europa League, competizioni di fatto eccessivamente dispersive e prive di un’anima vera e propria.

Gli ambiti di intervento insomma potenzialmente non mancano, la possibilità di avere un calcio al passo dei tempi ma legato ai territori e alle identità esistono e sono concrete.

Immaginiamo, tuttavia, che se nulla sarà fatto non faremo che vedere prolungarsi il declino del calcio italiano, quasi a rispecchiare sempre di più il declino di questa nazione: più povera, più triste e in mano agli stranieri.

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