La discussione intorno al progetto di legge di iniziativa parlamentare c.d. “Zan-Scalfarotto”, già approvato dalla Camera dei Deputati ed ora calendarizzato al Senato della Repubblica, è il risultato di una ideologia tirannica e luciferina che tende, senza riuscirci, a negare l’esistenza di un ordine naturale e imporne la negazione grazie alla tecnica della positivizzazione dei diritti.

Questo, secondo l’insegnamento tomista, non fonda le sostanze, ma è conseguente alla loro natura, alla tendenza naturale al fine e implica sempre il riferimento “ad aliquid aliud”. Scrive, infatti, Tommaso (1224-1275) nella Summa Theologiae (I, q. 45, a. 7, co.): “enim creatura subsistit in suo esse, et habet formam per quam determinatur ad speciem, et habet ordinem ad aliquid aliud”.

Oltre alla priorità/posterità, l’ordine naturale implica anche la distinzione delle cose cui si dà relazione. Pertanto, non c’è ordine se non tra cose distinte. L’ideologia di “genere”, invece, ammette, senza dimostrarlo razionalmente, che l’uomo è ciò che percepisce di essere, ma il “percepire” è un momento del soggetto, del suo divenire altro rispetto a ciò che ontologicamente è (il divenir altro non è, forse, severinianamente, un non essere?) e, come tale, privo di qualunque riscontro oggettivo. È il modo di pensare che alimenta l’etica soggettivistica dell’esistenzialismo, dello strutturalismo, del fenomenologismo, del neopositivismo, di certe correnti teologiche ispirate alla teologia della storia come quella di Karl Rahner (1904-1984) e del canadese Bernard Lonergan (1904-1984).

Il gender, dunque, ritiene naturale quello che attiene alla sfera del naturalistico, ossia degli appetiti umani, i quali, spesso, deviano dal fine della natura umana. E ciò avviene perché al concetto classico di natura si sostituisce la categoria del “Dasein”, cioè del puro Esserci nel mondo di heideggeriana memoria.

La difesa dell’ordine naturale, allora, non è “autistica”, ma un’esigenza di ragione. In primo luogo, se ogni pretesa, ogni diritto, fosse solo positivo, rimarrebbe da spiegare (Kelsen stesso cade in contraddizione con il diverso fondamento della Grundnorm nella prima edizione del 1937 e nella seconda del 1960 della Reine Rechtslehre) il diritto del legislatore stesso a porre “qualcosa”.

Molti sembrano dimenticare che colui che viene considerato il padre nobile del giuspositivismo italiano, il prof. Norberto Bobbio (1909-2004), in realtà affermava di essere positivista quanto al metodo, ma giusnaturalista di fronte allo scontro delle ideologie, a motivo del deficit di giustizia che una concezione esclusivamente positiva del diritto comporta. In secondo luogo, se non si vuole ridurre il diritto a mero atto di volontà dello Stato o della maggioranza dei cittadini (in nome della volontà popolare venne graziato un assassino, scrivono gli Atti degli Apostoli) e definire arbitrariamente l’essere in modo a-valutativo con la conseguenza, per l’empirista e poi il positivista, di affermare, alla luce della legge di Hume, che dall’essere non può derivare il dover essere e di svolgere in questo modo un’affermazione metafisica che dovrebbe essere esclusa dal loro perimetro, si deve ammettere come la nostra struttura somatica sia in se stessa portatrice di un finalismo intrinseco (come ha egregiamente ribadito Hans Jonas (1903-1993)): conservare l’essere e propagare la specie, l’esigenza di conoscere la Verità, di avere degli amici, di vivere in pace, etc.

Questi finalismi, queste esigenze ontologiche, si configurano come inclinazioni i cui oggetti appaiono alla nostra ragione pratica come beni da fare e perseguire, mentre i loro contrari (la morte, l’estinzione della specie, l’ignoranza, l’inimicizia, la mancanza di pace) quali mali da evitare. Dunque, il perseguimento di questi beni si rivela adeguato e necessario all’esistenza umana. Classicamente questa “adaequatio” si chiama giusto (iustum); e giacché non è “posta” da qualcuno, ma insita nella natura, si chiama “giusto naturale” o diritto naturale (ius naturale). Con buona pace dei “genderisti”.

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