Il 10 aprile ricorre l’anniversario della morte di Oberdan Sallustro, direttore della Fiat in Argentina; di doppia nazionalità, italiana e paraguaiana, figlio di napoletani, nato ad Asunción, ufficiale di artiglieria dell’esercito nella seconda guerra mondiale, poi laureatosi a Torino, era stato rapito a Buenos Aires il 21 marzo 1972 da un commando di guerriglieri marxisti.

Lo vogliamo ricordare noi, visto che la sua tragica fine è stata cancellata dalla memoria collettiva, ormai ipnotizzata dai fantasmi della propaganda progressista e anti-nazionale. Lo dobbiamo a lui e a tutti gli Italiani che si sono fatti onore nel mondo col proprio lavoro e la propria competenza.

Smentendo coloro che, ostaggi della propria paranoia, pretendevano di rappresentare il popolo, pochi giorni dopo il sequestro più di ottomila dipendenti dello stabilimento argentino avevano sottoscritto una petizione chiedendo l’immediata liberazione del loro dirigente, reo di appartenere invece, secondo la logica guerrigliera, alla classe degli “sfruttatori”.

Autore del rapimento era stato l’ERPEjército Revolucionario del Pueblo – che, da iniziali tendenze trozkiste si era spostato verso posizioni comuniste più ortodosse, aderendo alla Junta Coordinadora Revolucionaria, un organismo che comprendeva altri gruppi marxisti-leninisti – ELN boliviano, MIR cileno, Tupamaros uruguagi – e che faceva capo al Dipartimento “America” del ministero dell’Interno dell’Avana, che organizzava addestramento militare e indottrinamento ideologico.

I terroristi avevano posto per il suo rilascio diverse condizioni: distribuzione di alimenti alla popolazione, un riscatto poi fissato in un milione di dollari, da consegnare all’organizzazione, la liberazione di detenuti, di cui una cinquantina di guerriglieri da imbarcare su un aereo con destinazione Algeria, uno stato con cui Cuba aveva stretti rapporti politici ed operativi.

A prendere contatti col governo argentino per giungere a una soluzione favorevole furono il presidente Giovanni Leone, Paolo VI e, soprattutto, la Fiat, attraverso la persona dell’imprenditore Aurelio Peccei (uno dei fondatori del Club di Roma), già ai vertici dirigenziali della casa torinese e dell’Olivetti.

Questi fu il vero capofila delle trattative, riuscendo anche a ottenere un colloquio in carcere con Mario Roberto Santucho, comandante in capo dell’ERP, il quale fu irremovibile nella richiesta di liberazione dei guerriglieri.

Dal canto suo, il presidente argentino Agustín Lanusse dichiarò che “non avrebbe negoziato con delinquenti comuni”.

La polizia federale nel frattempo si era messa sulle tracce dei rapitori, che avevano già annunciato la condanna a morte di Sallustro sancita da un “tribunale del popolo”, riuscendo ad arrestare numerosi appartenenti all’ERP. Il 10 aprile una pattuglia penetrò nel covo dove era custodito l’ostaggio e da lì iniziò una sparatoria. I sequestratori riuscirono a scappare ma prima di abbandonare l’edificio attraverso i sotterranei, uno di loro uccise Sallustro con tre colpi, al torace e al capo.

Addosso gli fu rinvenuta una lettera, indirizzata a Peccei; vi era scritto: “Socrate, prima di bere la cicuta, deplorava l’atteggiamento piagnucoloso dei suoi discepoli. Li riteneva invidiosi perché lui avrebbe conosciuto prima degli altri la Verità. Anch’io sono molto sereno perché finalmente conoscerò la Verità di Giorgio (suo figlio morto in un incidente anni prima; ndr) e di Dio. Cordialmente. Oberdán Sallustro”.

A sparare al dirigente della Fiat fu, secondo i rapporti di polizia, Mario Raúl Klachko, certamente fra i suoi carcerieri al momento dell’omicidio. Riparato in Francia, dove divenne architetto e urbanista, protetto e coccolato dall’ultra-sinistra, in una recente intervista al quotidiano argentino Página 12, pur attribuendo l’esecuzione a un altro carceriere (ndr, morto nel 1973) affermò, senza neppure un accenno di rimorso: “Non avevo il minimo rispetto per Sallustro. Che l’ammazzassero o no per me era uguale”.

Solo alcuni dei responsabili e dei complici furono catturati e giudicati; Carlos Tomás Ponce de León condannato all’ergastolo, Osvaldo De Benedetti a 12 anni di reclusione, Silvia Urdampilleta a 9 anni e Andrés Alsina Bea, membro dei Tupamaros, a 6 anni.

Furono tutti scarcerati il 25 maggio del 1973, a seguito del condono generale concesso dal neo-eletto presidente, Héctor Campora, su pressione dell’ala Montoneros della coalizione peronista vincente – il FREJULI – la sera stessa della sua assunzione alla carica.

I beneficiati dall’indulto, circa settecento in tutto il paese, ripresero naturalmente le armi e le famiglie di alcuni degli ex-condannati per il sequestro e la morte di Sallustro, finiti poi fra i desaparecidos, dopo la caduta della dittatura militare, ricevettero un indennizzo dal governo.

Per Osvaldo De Benedetti, nel 1998 (cambio peso/dollaro 1/1) furono pagati 12 milioni di pesos. Per Silvia Urdampilleta, nel 2000 (cambio peso/dollaro 1/1) dieci milioni di pesos. Entrambi citati nel “parco della memoria” a Buenos Aires perché “morti combattendo per ideali di giustizia e libertà”.

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