Mi è stato chiesto, in questi giorni, a seguito della vittoria del Sì al referendum costituzionale avente ad oggetto la legge di revisione sulla riduzione del numero dei parlamentari, se l’attuale Parlamento può, nell’anno solare 2022, ossia quando si conclude il settennato del Presidente della Repubblica pro tempore, Sergio Mattarella, eleggere in seduta comune ed integrato dai delegati regionali, come stabilisce la Costituzione vigente ex art. 83, il nuovo Capo dello Stato.

A riguardo, mi pare doveroso distinguere tra legittimità e legittimazione.

Il primo è un concetto che attiene alla sfera giuridica: essendo le Camere nel pieno delle loro funzioni, l’Assemblea legislativa riunita in seduta comune ed integrata dai delegati delle Regioni eleggerà il futuro Presidente in maniera pienamente legittima.

Il secondo, invece, è di natura politologica: la vittoria del Sì, al di là delle tempistiche di entrata in vigore della legge costituzionale di modifica, rende certamente i due rami del Parlamento italiano privi di autorevolezza.

Ora, il Capo dello Stato, per ricucire il rapporto tra rappresentanza e rappresentatività spezzatosi dopo la consultazione referendaria, potrebbe (non sussiste alcun obbligo) sciogliere anticipatamente le Camere, sentiti i rispettivi Presidenti, ai sensi dell’art. 88 del Testo fondamentale.

Un’ipotesi di scuola, accolta da una parte della dottrina costituzionalistica minoritaria, ma non priva di fondamento soprattutto se, alla vittoria del Sì, si aggiunge l’irrilevanza politica del Movimento 5 Stelle confermata, dal 2018 ad oggi, in più di una tornata elettorale.

Ovviamente, Sergio Mattarella non lo farà mai: teme una maggioranza di centro-destra che esprima un Esecutivo di colore politico analogo.

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