L’Italia ha ratificato col voto alla Camera la c.d. convenzione di Faro del 27 ottobre 2005 sulla salvaguardia dell’eredità/patrimonio (heritage, nel testo originale in lingua inglese) culturale.

Salutata da taluni quasi come l’inizio di una nuova epoca  (il patrimonio culturale come fattore cruciale per la crescita sostenibile, lo sviluppo umano e la qualità della vita […] introduce il diritto al patrimonio culturale – queste le parole del ministro Dario Franceschini), secondo altri segnerebbe il passaggio dal “diritto del patrimonio culturale… al diritto al patrimonio culturale” (Ohibò! La cultura “dal basso” ma che bello, davvero originale!)

Non sono mancate legittime critiche da “destra”, sia per le affermazioni scontate di cui è infarcita la Convenzione, sia per il pericolo che l’interpretazione di alcuni passi, a partire da quello contenuto nel preambolo: “ogni persona ha il diritto di impegnarsi nell’eredità culturale di sua scelta, rispettando i diritti di libertà degli altri…”, possano portare a rese sul piano culturale simili a quelle avvenute in occasione della visita del premier iraniano Hassan Rohani nel 2016, quando furono coperte le statue dei musei capitolini.

Indubbiamente quell’ipotesi è tutt’altro che astratta. L’articolo 4 della Convenzione prevede limitazioni all’esercizio del diritto al patrimonio culturale “… necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico, degli altrui diritti e libertà”: quindi, per non turbare studenti gay friendly e musulmani, in un bell’esercizio di “democrazia”, saranno vietate dai programmi scolastici la lettura e il commento del terzo girone dantesco, dove sono puniti i sodomiti, e sarà taciuta la sorte riservata a Maometto, collocato dal Sommo Poeta nelle viscere dell’Inferno fra i seminatori di discordia?

C’è da scommetterci.

Ma quelle giuste critiche non colgono che l’aspetto più vistoso di una filosofia di fondo che conduce immediatamente all’escatologia marxista, che si avvale del rifiuto di ogni “sovrastruttura” e dell’idea di un progressivo e continuo mutamento della realtà in forma “dialettica”.

Convinti della necessità di coinvolgere ognuno nella società nel continuo processo di definizione e gestione dell’eredità culturale” – così si legge ancora nel preambolo – gli ideologi del neo-approccio culturale non possono/non debbono definire esattamente i fondamenti dell’eredità europea, che riposano sull’universalità delle opere omeriche, sul pensiero greco, sul diritto romano e sulla Cristianità. Ovvio che no, è sovrastruttura.

L’eredità culturale, quindi, deve essere sempre in movimento, polimorfa, in una prospettiva dialettica che si pone “al centro di un allargato ed interdisciplinare concetto di eredità culturale”, dove le altre discipline sono evidentemente le letture in chiave ideologica, sociologica, psicologica dei mutamenti sociali, anch’esse sapientemente dosate a formare una “eredità culturale” in continuo cambiamento.

Ce lo conferma l’articolo 2, che la definisce come “insieme di risorse ereditate dal passato che le persone identificano come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni costantemente in evoluzione”.

L’eredità culturale deve essere interpretata secondo le necessità e i parametri del presente.

Quella europea, in particolare, come ci spiega l’articolo 3 (intitolato “Patrimonio comune dell’Europa”) oltre a consistere in una “ fonte condivisa di ricordo, di comprensione, di identità, di coesione e creatività” (meglio non evocare la temuta “sovrastruttura” ) è formata da “gli ideali, i principi e i valori, derivati dall’esperienza ottenuta grazie al progresso e nei conflitti passati, che promuovano lo sviluppo di una società pacifica e stabile, fondata sul rispetto per i diritti dell’uomo, la democrazia e lo Stato di diritto”. La seconda parte della definizione svilisce la prima, per la contradizion che nol consente.

L’evoluzione, l’esperienza, lo sviluppo, il progresso e, naturalmente la democrazia e i diritti dell’uomo, questi ultimi dialetticamente suscettibili di assumere sempre nuove forme, sono i veri interpreti della “eredità culturale”, che cessa di avere valore in sé diventando strumento ideologico.

Scriveva Rafael Gambra (“El lenguaje y los mitos”, Madrid 1983)  “…la rivoluzione maoista si è realizzata sotto il nome di ‘culturale’, come una grande impresa sradicatrice di ciò che di storico e di religioso risiedesse ancora nella mente degli uomini e dei popoli. Cultura non sarà allora arricchimento dello spirito, ma distruzione di contenuti e di radici per ottenere una supposta liberazione dell’uomo. Lo spirito deve svuotarsi d’ogni genere di credenze, principi, riferimenti fino a rimanere aperto alla evoluzione dialettica di una coscienza collettiva”.

Non c’è bisogno di cambiare una virgola.

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