Domenica 20 e lunedì 21 settembre 2020 si voterà, com’è noto, anche per il referendum oppositivo ex art. 138, comma 2, della Costituzione vigente, avente ad oggetto la pessima legge di revisione costituzionale inerente alla riduzione dei parlamentari (deputati e senatori, inclusi quelli eletti nella Circoscrizione estero).

Le principali ragioni del Sì puntano a:

a) risparmi inesistenti: solo lo 0,007% della spesa pubblica complessiva;

b) una maggiore velocità nell’approvazione delle leggi. Questo è fattibile lasciando inalterato il bicameralismo paritario con la conseguenza, soprattutto quando un disegno di legge viene approvato in Commissione deliberante o legislativa, senza cioè passare dall’Aula, che esso divenga legge del Parlamento (dovrà poi essere promulgato dal Presidente della Repubblica) con il voto di pochi, specialmente al Senato della Repubblica?

c) un segnale (quale?) alla classe politica. Troppa grazia: a pensare di cambiare un Paese con leggi e decreti, si finisce per ottenere risultati molto diversi da quelli voluti dal legislatore. Lo scriveva molto bene Edmund Burke (1729-1797), il «Cicerone britannico», osservando le vicende in Francia dal 1789 al 1795: dalla Convocazione degli Stati Generali il 5 maggio 1789 alla ghigliottina giacobina.

Continuare a sostenere che la rappresentanza politica non venga toccata, in quanto i membri del Parlamento continuano a rappresentare la Nazione ed esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato (art. 67 Cost.), è falso. Questa, infatti, non è la fictio kelseniana, ma assume un significato concreto, ossia consiste nella rappresentazione degli interessi politici del popolo e non di una sola parte (si vedano, in merito, le riflessioni di Costantino Mortati in Italia).

Non potendo tradursi nel trovare la razionale giustezza di una decisione, dal momento che questa presuppone una Costituzione non «anfibologica», diversamente da quella italiana e da quelle del secondo dopoguerra, essa si riduce a calcolare e far valere interessi e probabilità di vincere legati a logiche lobbistiche.

A chi obietta che questo avviene anche oggi, va replicato che la riduzione dei parlamentari non farà altro che aumentare questa situazione, rendendo sempre di più la pubblica discussione e le sue argomentazioni una vuota formalità.

In altri termini, il Parlamento, fortemente marginalizzato, sarà cassa di risonanza di prese di posizioni adottate in altri sedi. C’è un’intera forma di governo che non funziona: dal ruolo «a fisarmonica» del Presidente della Repubblica, favorito anche dal tipo di legge elettorale e da forze politiche poco autorevoli, all’abuso da parte del Governo dell’istituto della questione di fiducia (vedasi la gestione dell’emergenza sanitaria in relazione ai disegni di legge formale di conversione dei decreti-legge adottati dall’esecutivo Conte II); dal ripensamento delle articolazioni territoriali della Repubblica ex art. 114, comma 1, Cost., alla necessità di differenziare la seconda Camera.

Ragionare in termini di tagli, come fa penosamente il Movimento 5 Stelle, significa ignorare volutamente che la legge ordinaria dello Stato 31 ottobre 1965, n. 1261, attualmente vigente, permette agli uffici di Presidenza della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica di intervenire sulle indennità (l’art. 69 del Testo fondamentale che le prevede non è oggetto di riforma), riducendole ulteriormente come avvenuto anche nel recente passato.

«Il Parlamento non deve essere solo una componente dell’equilibrio (come avviene, ahimè, nelle vuote democrazie occidentali), ma deve essere riequilibrato al suo interno» (cit. C. Schmitt, La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo). L’esatto opposto di questa riforma costituzionale

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