Nelle giornate di domenica 20 e lunedì 21 settembre 2020 il corpo elettorale italiano sarà chiamato alle urne per confermare o meno la legge di revisione costituzionale inerente alla riduzione del numero dei parlamentari sia alla Camera dei Deputati, sia al Senato della Repubblica.

In via generale, è opportuno ricordare come la consultazione referendaria, di cui al comma 2 dell’art. 138 della Costituzione vigente, non ha quorum partecipativo, ma unicamente deliberativo. Pertanto, a prescindere dal numero di coloro che si recheranno alle urne, per impedire la promulgazione della legge costituzionale da parte del Presidente della Repubblica pro tempore è necessario che i voti validi a favore del No siano superiori ai Sì.

Sono tante le argomentazioni da portare per sostenere le ragioni funzionali ad impedire l’entrata in vigore di questa pessima legge. In sintesi ne saranno indicate quattro:

1) il pericoloso ridimensionamento della rappresentanza politica, con contestuale aumento del divario tra rappresentanti e rappresentati e difficoltà di selezionare gli interessi pubblici in gioco. Questa divaricazione avrà inevitabili implicazioni sulla scelta della stessa classe politica ad opera dei partiti, i quali saranno propensi più a premiare chi è in grado di portare consenso, controllando un certo numero di tessere, piuttosto che i “portatori di competenze”. Si potrebbe replicare che il problema è presente anche oggi, ma certamente la riforma lo amplierà;

2) la riduzione del numero dei parlamentari porterà ripercussioni sullo stesso procedimento legislativo, che non sarà velocizzato soprattutto a Palazzo Madama, in quanto i senatori dovranno inevitabilmente partecipare a più Commissioni parlamentari permanenti, con un aggravio del lavoro e dell’impegno a scapito della stessa qualità della legislazione, e sull’elezione di alcuni componenti, da parte del Parlamento in seduta comune, di altri organi costituzionali o di rilievo costituzionale (ad esempio i 5 giudici della Corte o i membri “laici” del Consiglio Superiore della Magistratura). Il pericolo, infatti, è quello di anestetizzare le minoranze, specialmente i cattolici, e la stessa dialettica parlamentare, cuore pulsante del sistema democratico: sarà molto più semplice, nella seconda deliberazione, raggiungere la maggioranza dei 2/3 per impedire il ricorso al referendum oppositivo;

3) è una revisione “cieca”, parziale e frutto della vuota retorica anticasta portata avanti dal Movimento 5 Stelle. Come mai, in tutti questi anni, non si è deciso di attuare i vari programmi di spending review di cui al decreto-legge n. 69/2013? Non si può incidere sul numero dei componenti dei due rami del Parlamento italiano senza ripensare seriamente il ruolo delle Camere, l’intera forma di governo parlamentare “a debole razionalizzazione” che legittima da sempre il compromesso in nome del mantenimento del potere, anche quando la relazione rappresentanza-rappresentatività è in crisi, senza rivedere lo Stato regionale attraverso una “rivoluzione” dei rapporti tra centro e periferia;

4) il minor numero di deputati e senatori inciderà solo sullo 0,007% della spesa pubblica complessiva, rimanendo inalterati i costi per il funzionamento delle Camere e per il personale che vi svolge la propria attività lavorativa.

Prof. Daniele Trabucco

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