Il colpo di stato in Mali avvenuto lo scorso 18 agosto (il secondo nel giro di pochi anni) ha attirato la mia attenzione distogliendola dal Covid, dall’immigrazione clandestina e dal peggior pantano politico in cui versiamo noi italiani per colpa di un governo di incapaci.

Diamo un’occhiata al continente africano, adesso che è passato più di mezzo secolo da quella fase, così delicata e così mal gestita, che è stata la decolonizzazione. Sì, guardiamo un attimo a come è messa ora l’Africa (o, come scriveva Ungaretti: Affrica).

Fuor dai denti: peggio di prima, basti pensare alla Nigeria, al Burkina Faso, al Congo, al Sudan, alla Somalia, tanto per citare quelli che sono messi peggio quanto a benessere delle loro popolazioni, a corruzione e a violenza (jihadista o malavitosa). E che dire della Libia? O dell’Algeria, paese enorme per estensione e straricco di risorse naturali, eppure con una guerra civile appena trascorsa sulle spalle, una popolazione molto più povera di quando era sotto il dominio dei francesi e oppressa da una classe politica di mafiosi?

Ma non versano in buone condizioni neanche la Tanzania, il Ciad, il Niger, la Mauritania. E cosa dire dell’Etiopia, dell’Eritrea, della Costa d’Avorio, del Sierra Leone e della Liberia? Sì, stavano meglio fino a quando noi abbiamo iniziato a dire loro che stavano male, fino a quando, sulla spinta di una certa ideologia, abbiamo pigiato sull’acceleratore della liberazione e della decolonizzazione, senza contare quali sarebbero stati gli effetti di un ridotto, quando non assente, periodo di transizione.

Ma tutto ciò ormai è acqua passata e, come vuole il proverbio, questa, non macina più. Getterei quindi uno sguardo sulle new entry in questo bel “rebelot” di paesi che hanno lottato per ottenere l’indipendenza e cadere dalla padella nella brace. Cito a titolo d’esempio:

  • il Mali,
  • lo Zimbabwe,
  • il Mozambico.

Circa il Mali: il 18 agosto scorso un “coup d’état” militare ha deposto il Presidente della Repubblica, Ibrahim Boubakaer Keita. Dal 1960, data dell’indipendenza dal dominio coloniale francese, è il quarto golpe che si sussegue. L’ultimo era avvenuto nel 2012, ma tra quell’ultimo “coup” e la data odierna si erano registrati alcuni tentativi andati falliti.

In tale bailamme:

  • il jihadismo ISIS, che dal Medioriente siro-iracheno era già penetrato nel Sahelo-Sahara, ne ha approfittato per impadronirsi delle più importanti città del nord, Gao, Timbuctu e Kidal, riconquistate grazie all’operazione Serval delle forze francesi;
  • il Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad, riarmatosi ex novo con le armi provenienti dall’arsenale libico, ha proclamato la secessione dei territori settentrionali, che dall’indipendenza subiscono la supremazia delle etnie del sud.

Se è vero che le varie missioni francesi e dell’Onu (Serval e Minusma) erano riuscite a dare una parvenza di stabilità al paese, a far indire le elezioni che hanno portato Keita alla presidenza e a scongiurare la secessione dell’Azawad, è vero anche che si è trattato solo di “ammuina”, perché il paese è stato riconsegnato alla stessa classe politica responsabile della crisi. Le manifestazioni di protesta contro la corruzione, il malgoverno, i brogli, i pessimi servizi, le pessime infrastrutture e l’aumento della violenza, sono riprese e l’Azawad è quasi di fatto autonomo rispetto a Bamako.

È importante sottolineare che le manifestazioni di protesta che hanno di fatto paralizzato il paese e portato al colpo di stato sono state capeggiate da un imam originario di Timbuctu, Mahmoud Dicko, adepto della corrente tradizionalista ed integralista salafita, ma che viene definito negli ambienti islamisti un “quietista”. Si tratta di un personaggio da osservare attentamente per capire se sia un semplice imam votatosi alla politica per inserirsi nella dinamica dello sfruttamento del potere ad personam, oppure se si tratti di un salafita intransigente orientato a reclamare l’applicazione integrale della Shari’a,  oppure se sia uno di quegli imam adepti di un Islam “africano” che, pur radicale, è condizionato dalla particolare spiritualità di quei luoghi permeati dalla setta sufi Tijania[1] propensa alla tolleranza religiosa. Da seguire.

Lo Zimbabwe. Una volta ricco e prospero paese africano chiamato Rhodesia, adesso ridotto alla fame dopo anni di potere esercitato da un despota di nome Mugabe e da un altro despota che l’ha sostituito, Emmerson Mnangagwa, che risponde al nomignolo significativo di “coccodrillo”. Dall’ascesa al potere di Mugabe fino al forzato passaggio di consegne con il “coccodrillo”, il paese è andato a catafascio: il tasso di inflazione è salito ai massimi livelli, la disoccupazione è al 90%, l’agricoltura è azzerata, la carestia non è più una realtà remota e i vescovi non hanno mancato di denunciare “il collasso dell’economia, la povertà crescente, l’insicurezza alimentare, le violazioni dei diritti umani, la corruzione che ha raggiunto livelli insostenibili e l’esodo verso il Sudafrica di alcuni milioni di cittadini”. Forse si stava meglio in Rhodesia…

Il Mozambico, una volta florida colonia portoghese liberata dall’eroe nazionale Samora Machel, adesso è un paese ridotto anch’esso alla fame, passato da una guerra civile mai sopita all’invasione dei jihadisti contigui ad Al Shabaab, i quali si sono attestati nelle foreste del nord del paese, ai confini con la Tanzania fino a lambire la provincia centrale di Cabo Delgado

Recentemente, i jihadisti di ISIS/Shabaab hanno attaccato e preso il porto di Mocimboa da Praia, una città di 70.000 abitanti, e, allo stato attuale, nulla garantisce che le Forze di sicurezza mozambicane siano riuscite a riprenderla.

È evidente che ISIS/Shabaab ha intenzione di aprire un fronte sulla costa orientale dell’Africa australe, un fronte che costituisce il naturale prolungamento verso sud della fascia sahelo-sahariana che si estende dal Mali all’Egitto e al Sudan, fino alla Somalia, punto di giunzione e “svincolo” del jihadismo verso il sud dell’Africa.

I jihadisti che hanno investito il Mozambico risultano essere ben armati, ben organizzati e, proprio come nel Sahelo-Sahara, possono contare sulla complicità e sull’omertà di una popolazione e di una gioventù ormai stanche di uno stato corrotto, dedito agli abusi, spesso violento e che, ammantandosi di democrazia non esita a manipolare le elezioni.

Bazzico l’Africa e i paesi arabo-islamici da oltre cinquant’anni e la verità incontrovertibile che balza all’attenzione di un qualsiasi osservatore intellettualmente onesto è che le lotte di liberazione e le indipendenze concesse sono state una iattura per le popolazioni africane.

Bastano alcuni nomi di capi di Stato di paesi africani, liberati dal colonialismo per capirlo:

  • Mugabe e “il coccodrillo” suo successore (Zimbabwe)
  • Menghistu (Etiopia)
  • Idi Amin Dada (Uganda)
  • Bokassa (Centrafrica)
  • Mobuto (Congo)
  • Sekou Touré (Guinea)
  • Al Bashir e Hassan Al Tourabi (Sudan)
  • mentre l’Algeria vede una intera classe politica mafiosa, al potere dal 1962.

Mi si creda, le popolazioni sottoposte a quei bei tomi di cui sopra, rimpiangono il giogo dei loro colonizzatori. In Algeria passa la battuta secondo cui sarebbe ora che il presidente della Repubblica schiaffeggiasse con il suo ventaglio il console francese[2].


[1] La confraternita Tijania è una confraternita sufi vicariante tra il Maghreb e i paesi sub sahariani dell’Africa occidentale, che professa un Islam improntato alla tolleranza.

[2] In riferimento all’episodio dello schiaffo al Console di Francia in Algeri da parte del Bey turco (1830) che ha innescato l’invasione francese.

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