Il quesito del referendum oppositivo, di cui all’art. 138, comma 2, della Costituzione repubblicana vigente, fissato per le giornate del 20 e del 21 settembre 2020, chiede alle elettrici ed agli elettori italiani di esprimersi con un Sì o un No in merito alla legge di revisione costituzionale che riduce complessivamente il numero dei parlamentari in misura pari al 36,5% dei membri di ciascuna Camera.

Il Movimento 5 Stelle (ricordo che, all’inizio, il Partito Democratico era di avviso contrario), grande fautore di questa pessima modifica, ha sempre puntato sulla vuota retorica del «taglio delle poltrone» con contestuale riduzione dei costi. Tuttavia, quando si interviene sul Testo fondamentale non basta parlare alla pancia della gente, essendo necessario avere ben chiare le conseguenze dei mutamenti costituzionali. Mi rendo conto che pretenderlo dal Movimento 5 Stelle è cosa ardua (le persone intelligenti lo hanno già lasciato), ma se si è forza di maggioranza relativa in un Paese “democratico” (benché in realtà oggi netta minoranza nel paese), bisogna possedere una visione sinottica delle questioni in campo.

Il numero delle 14 Commissioni parlamentari permanenti presenti sia alla Camera dei Deputati, sia al Senato della Repubblica, resterà invariato (e mi limito a questo, per non affrontare il tema delle Giunte)? Come si potrà assicurare, soprattutto a Palazzo Madama, la proporzionalità tra i diversi gruppi parlamentari? Come rispettare il divieto di contestuale appartenenza a più Commissioni e la necessaria sostituzione dei membri chiamati a far parte del Governo della Repubblica?

Ovviamente, la legge di revisione costituzionale non disciplina tali aspetti, rientrando questi nella competenza dei regolamenti parlamentari, o meglio nella «autodichia» delle due Camere.

Si potrebbe replicare che è sufficiente «mettere mano» ai rispettivi regolamenti, ma in questo caso si presuppone un rapporto causa-effetto tutto da dimostrare. I due rami del Parlamento italiano, infatti, ben potrebbero non procedere ad alcun mutamento delle fonti regolamentari ex art. 64, comma 1, Cost. L’alternativa sono le Commissioni riunite e, ove possibile, le Commissioni congiunte di Camera e Senato?

Per non parlare, poi, di come la riduzione di deputati e senatori andrà inevitabilmente ad incidere sul procedimento legislativo e sul procedimento non legislativo, affidando a pochi alcuni rilevanti poteri o facoltà. Solo un esempio: l’art. 79, comma 5, del regolamento della Camera dei Deputati, in tema di istruttoria legislativa, rimette attualmente a 4 deputati la facoltà di richiedere all’Esecutivo dati e informazioni anche con la predisposizione di apposite relazioni tecniche: nello scenario post-riforma ne saranno sufficienti due.

A questo si aggiunga che, anche volendo perseguire la via della modifica dei regolamenti parlamentari, si dovrà tener conto dei differenti procedimenti di revisione, i quali potrebbero rallentare il processo di adeguamento e ciò implicherebbe conseguenze infauste sulla qualità già pessima della legislazione. E se la decisione di revisionare partisse solo da una Camera? L’altra, nella sua autonomia costituzionalmente garantita, potrebbe decidere di lasciare inalterato il testo del proprio regolamento, venendosi in tal modo a determinare un’asimmetria tra le Camere stesse.

Infine, basta con il refrain revisione costituzionale=riduzione dei costi. Si tratta dello stesso leit motiv della riforma costituzionale c.d. «Renzi-Boschi» sonoramente bocciata, in data 4 dicembre 2016, dagli elettori e da quel Movimento 5 Stelle che, quattro anni dopo, lo riprende. I costi di Camera e Senato riguardano un millesimo della spesa pubblica nazionale. Se proprio si volevano contenere i costi, perché le varie proposte di «spending review», formulate dai vari Commissari straordinari nominati dal Governo ai sensi dell’art. 49 bis del decreto-legge n. 69/2013 (convertito, con modificazioni, nella legge ordinaria dello Stato 09 agosto 2013, n. 98), non hanno mai trovato attuazione? Il risparmio sarà dello 0,007%. La riforma non toccherà né le spese correnti di funzionamento dei due rami del Parlamento, né quelle relative al personale. Io voto No a questa porcheria!

Prof. Daniele Trabucco

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