La Settimana Santa ci conduce, attraverso la porta della Domenica delle Palme, nel cuore del Mistero pasquale celebrato nel Triduo sacro di Passione, Morte e Risurrezione del Signore.

Vorrei dunque proporre ai nostri lettori una “Lectio” iconografica, disciplina che come indica D. Forte, è sussidiaria dell’archeologia e della storia dell’arte, che studia gli elementi grafici e compositivi di ogni opera d’arte (per es., le positure, i gesti, gli attributi dei personaggi rappresentati) nell’intento di coglierne i particolari significati, le derivazioni, le persistenze e le mutazioni, giungendo spesso a decifrare sicuramente i soggetti, a cogliere rapporti insospettati fra l’opera d’arte e la cultura del tempo che l’ha prodotta, a indicare quali fattori abbiano potuto operare sulle intime qualità dello stile.

Addentriamoci allora nella lettura della celebre opera “La Deposizione”, capolavoro di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, un dipinto ad olio su tela di cm 300 x 203 realizzato tra il 1602 ed il 1604. È conservato nella Pinacoteca Vaticana. Il dipinto venne commissionato da Girolamo Vittrice in ossequio alle disposizione dello zio Pietro, defunto il 26 marzo 1600, che lo voleva nella cappella funeraria da lui fondata nella chiesa di Santa Maria in Vallicella a Roma, la sede dell’oratorio di san Filippo Neri.

Caravaggio è un formidabile innovatore. È il primo a usare la luce come disvelamento, come colpo di mano sul Vero visibile. È il primo a intuire e a rappresentare la terribile moralità immanente alle cose quando il lume e l’ombra ce le fanno apparire così come sono. In questo senso il dipinto vaticano ha offerto alla moderna critica specialistica argomenti di riflessione e di decodificazione importanti. Per il primo Novecento delle avanguardie e delle rivoluzioni e dunque per Roberto Longhi, Caravaggio era il peintre maudit descrittoci nel 1603 dal contemporaneo Karel van Mander (“quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due con lo spadone al fianco e un servo dietro, e gira da un gioco di palla all’altro, molto incline a duellare e a far baruffe”) ed era soprattutto l’alfiere di un rinnovamento artistico radicale, ideologicamente connotato in senso laico e progressista.  È stato il secondo Novecento a capire e a dimostrare che il Merisi da Caravaggio, questo personaggio irascibile e violento, frequentatore di cattive compagnie, più a suo agio fra donne di malaffare e ragazzi di vita che fra i gentiluomini e i prelati che pure lo ammiravano e lo collezionavano (i Cardinali Del Monte e Borromeo, il Marchese Giustiniani, fra gli altri) era uno spirito autenticamente religioso portatore delle idee e delle sensibilità più avanzate nella moderna estetica cristiana.

Il Caravaggio nella “Deposizione di Cristo” non raffigura in realtà il Seppellimento, né la Deposizione nel modo tradizionale, in quanto il Cristo non è rappresentato nel momento in cui viene calato nella tomba, bensì quando, alla presenza delle pie donne, viene adagiato da Nicodemo e Giovanni sulla Pietra dell’Unzione.

Cominciamo col dire, prima di tutto, che il termine iconografico con il quale il quadro è conosciuto è solo genericamente corretto. L’episodio che qui Caravaggio mette in figura è l’atto che, nel rito giudaico comune del resto a tutte le culture del Mediterraneo, immediatamente precede l’inumazione vera e propria. Il corpo di Cristo, appena disceso dalla croce, verrà spogliato, disteso sulla grande pietra ben visibile (dopo diremo del significato di quella pietra) per essere lavato, unto, profumato. Non della pietra destinata a coprire e a sigillare il sepolcro dunque si tratta, ma del letto marmoreo, destinato ai riti funerari, che in latino veniva chiamato lapis untionis.

LETTURA  BIBLICA – SINOSSI

Dal Vangelo secondo Matteo. (27, 59-61)

Giuseppe di Arimatea, preso il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo e lo depose nella sua tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia; rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro, se ne andò. Erano lì, davanti al sepolcro, Maria di Màgdala e l’altra Maria.

Dal Vangelo secondo Marco. (15, 46-47)

Giuseppe di Arimatea, comprato un lenzuolo, lo calò giù dalla croce e, avvoltolo nel lenzuolo, lo depose in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare un masso contro l’entrata del sepolcro. Intanto Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano ad osservare dove veniva deposto.

Dal Vangelo secondo Luca. (23, 52-53)

Giuseppe di Arimatea si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo calò dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo depose in una tomba scavata nella roccia, nella quale nessuno era stato ancora deposto.

Dal Vangelo secondo Giovanni. (19, 40-42)

Giuseppe di Arimatea e Nicodemo presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i Giudei. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora deposto. Là dunque deposero Gesù, a motivo della Preparazione dei Giudei, poiché quel sepolcro era vicino.

MEDITAZIONE TEOLOGICA

La Risurrezione non farà altro che rivelare la misteriosa e straripare vitalità che è nascosta nella croce di Cristo. Ma tutto questo è possibile perché si tratta della croce di Cristo e non di una croce qualsiasi. Il cristiano, il discepolo di Cristo, riceve dal suo Maestro e Signore lo stesso compito: trasformare la croce dell’uomo in croce di Cristo. La croce dell’uomo è ambigua, è senza speranza, la croce di Cristo è luminosa, ha il nome dell’amore, prepara, nella speranza, la vittoria della vita e della Risurrezione.

(Card. Carlo Maria Martini)

Gesù, disonorato e oltraggiato, viene deposto, con tutti gli onori, in un sepolcro nuovo. Nicodèmo porta una mistura di mirra e di aloe di cento libbre destinata a emanare un prezioso profumo. Ora, nell’offerta del Figlio, si rivela, come già nell’unzione di Betània, una smisuratezza che ci ricorda l’amore generoso di Dio, la “sovrabbondanza” del suo amore. Dio fa generosamente offerta di se stesso. Se la misura di Dio è la sovrabbondanza, anche per noi niente dovrebbe essere troppo per Dio. È quel che Gesù stesso ci ha insegnato nel discorso della montagna (Mt 5, 20). Ma bisogna ricordare anche le parole di san Paolo su Dio, che “diffonde per mezzo nostro il profumo della conoscenza di Cristo nel mondo intero. Noi siamo infatti… il profumo di Cristo” (2 Cor 2, 14s). Nella putrefazione delle ideologie, la nostra fede dovrebbe essere di nuovo il profumo che riporta sulle tracce della vita. Nel momento della deposizione comincia a realizzarsi la parola di Gesù: “In verità, in verità, vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12, 24). Gesù è il chicco di grano che muore. Dal chicco di grano morto comincia la grande moltiplicazione del pane che dura fino alla fine del mondo: egli è il pane di vita capace di sfamare in misura sovrabbondante l’umanità intera e di donarle il nutrimento vitale: il Verbo eterno di Dio, che è diventato carne e anche pane, per noi, attraverso la croce e la risurrezione. Sopra la sepoltura di Gesù risplende il mistero dell’Eucaristia.

(Card. Joseph Ratzinger, poi Sommo Pontefice Benedetto XVI)

LECTIO ICONOGRAFICA

Un gruppo di cinque persone sovrasta il corpo nudo e orizzontale dello Sconfitto. Ogni deposizione dalla Croce, mostrando il dinoccolato corpo di un defunto che obbedisce alle leggi della gravità e va dove altri lo mettono, esprime sempre la fine di una grande speranza. Gesù è veramente morto. Le donne sullo sfondo sono le tre Marie di cui ci parla l’evangelista Giovanni. A destra della scena è raffigurata con volto giovane Maria di Cleofa, sorella o cugina di Maria madre di Gesù, la quale esprime il suo dolore con le braccia alzate e aperte a ventaglio verso un cielo nero e indecifrabile.

Davanti a lei Maria di Magdala, dai lunghi capelli raccolti in leggere trecce e con il volto chinato, sta piangendo e asciuga le lacrime in un fazzoletto stretto nel pugno. Il suo pianto ricorda l’episodio raccontato da Luca della peccatrice perdonata. Una donna anonima che bagna di lacrime i piedi di Gesù, li asciuga con i capelli e li cosparge di olio profumato.

A sinistra c’è l’ultima Maria, la madre. Le sue braccia sono aperte sul corpo del figlio. La mano destra è sul capo e la sinistra, appena intravista sotto il braccio di Maria di Cleofa, è sopra i piedi. In questo modo le due Marie, con le braccia in verticale la prima e in orizzontale la seconda, creano una barriera, quasi per contrastare con il loro corpo l’avanzare dell’oscurità che incombe alle spalle del gruppo. Una barriera creata più dal desiderio di amorosa protezione che dall’effettiva efficacia. Perché di lì a poco l’ombra del sepolcro che si intravede sotto la grande pietra, avvolgerà il corpo ancora luminoso di Gesù.

Chi sono gli uomini in primo piano? A sinistra è riconoscibile un uomo vestito elegantemente che identifica il ricco Giuseppe di Arimatea, discepolo “nascosto” di Gesù a cui offre il sepolcro ancora nuovo. Altri invece vi vedono l’apostolo Giovanni, presente alla crocifissione. Se seguiamo il resoconto del vangelo di Giovanni (Gv 19,38-42), il personaggio di destra è Nicodemo: “Essi [Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo] presero il corpo di Gesù e lo avvolsero in bende…”.

Nicodemo è chinato e ha il volto girato verso lo spettatore. Ma sembra guardare in basso, verso il luogo in cui sta per posare il corpo dell’amato Signore. Ha gambe potenti e vigorose e i suoi piedi sono ben visibili e ben piantati per terra. Lui che ha gambe così solide e ancora governate dalla propria volontà, stringe a sé le gambe ora ferme del “messaggero di liete notizie”.

Sta aiutando il “Disceso” (3,13) a scendere nell’ultimo ripostiglio di mondo lontano da Dio, nell’estrema distanza dello Sheol, perché possa essere innalzato come Figlio dell’Uomo e dare la vita eterna a chi crede in lui.
Giuseppe di Arimatea, il discepolo “nascosto per timore dei Giudei”, è sopra il petto di Gesù e con la mano destra tocca la ferita del costato.

Viene in mente l’apostolo Giovanni, altro candidato a rappresentare quella figura, quando durante l’Ultima cena posa il capo sul petto di Gesù. E sarà lui a raccontare, come incipit della sua prima lettera, quel magnifico inno alla insostituibile materialità di Gesù: “Ciò che era fin da principio… ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, noi lo annunziamo a voi”.

Una parola sulla roccia e sul telo. La solida roccia è la lapide del sepolcro. Per un perfetto gioco di luce l’angolo sembra sporgere dal quadro. Oltre alla “pungente” inesorabilità della morte, qui considerata, gli interpreti della storia dell’arte vi hanno letto il riferimento alla “Roccia che, scartata dai costruttori, è divenuta testata d’angolo”. E anche alla Kefa’, Pietra, su cui è fondata solidamente la Chiesa, voluta da Gesù come suo corpo per essere presente in tutti i secoli e luoghi del mondo. Il candido telo è la Sindone. La veste nuziale del morto.

Ma il particolare che più mi ha colpito del dipinto del Caravaggio è la mano di Gesù. Il dito di Dio che tocca il mondo. In un punto preciso. Ognuno di noi, rispetto a quel punto, ha una coppia tutta sua di coordinate spazio-temporali che lo individuano, nel duplice senso che individuano lui, Gesù, e noi, in un rapporto unico e irripetibile. Il braccio di Gesù pende verticalmente e le sue dita toccano la grande pietra che sorregge il gruppo di persone. Come dicevo è una pietra spigolosa, tagliente, inesorabile. Una solidità messa in rilievo dai piedi ben piantati di Nicodemo.

I critici dell’arte sono unanimi nel rilevare che la composizione del Cristo morto è il vero pregio del dipinto di Caravaggio. Il braccio di Cristo pende verso il basso, attirato dalla forza di gravità. La natura lo domina. Ma ecco che le dita della sua mano si “impigliano” nel bordo della pietra. L’indice e il medio fanno da perno, fermando momentaneamente la mano e arcuando leggermente il braccio che viene spostano in avanti dalla pietas dei discepoli.

Con questo effetto grafico, che permette di intuire il movimento, Caravaggio riesce a partecipare all’osservatore l’incedere verso il sepolcro del corpo di Gesù. Il senso di abbandono è talmente riuscito da essere stato fonte di ispirazione per altri artisti, come per esempio per il celebre dipinto di David

“La morte di Marat”.

Gesù è il punto di incontro tra Dio e l’uomo. Il toccare la pietra tombale da parte di Gesù può certamente significare un’attribuzione di identità, quasi volesse dire “Io sono la Roccia sulla quale poggia la mia Chiesa di discepoli”. Ma in questo contesto trovo più interessante pensare quel gesto come l’eloquente espressione di quel che significa il viaggio dell’Incarnazione.

Entrare nel mondo, diventare materia, partecipare alla morte. Dio in Gesù ha toccato la caducità del cosmo e della condizione umana. Senza questo contatto la vanità della nostra apparizione resta intatta. Nonostante i trucchi cosmetici. Per questo è essenziale che un certo uomo di Galilea, chiamato Gesù, sia veramente esistito. E per questo sono importanti le ricerche storiche che aiutano a diradare i fumi della miticità spiritualista e della scetticità razionalista.

Ma è quella pietra, la vera silenziosa protagonista del quadro. La lastra marmorea presenta verso di noi il suo angolo e subito viene alla mente il Salmo 118: “La pietra scartata dal costruttore è diventata testata d’angolo”.

In questo momento Cristo è la pietra scartata dalla storia. I suoi discepoli lo hanno abbandonato, rinnegato, si sono dispersi. La sua meravigliosa utopia è finita sulla croce e ora si dissolverà per sempre nel sepolcro. Questi pensieri, in questo momento, attraversano gli astanti e Caravaggio li rappresenta con implacabile verità.

Eppure noi sappiamo, Caravaggio sa, che su quella pietra riposa la speranza di salvezza per Pietro Vittrice e per ognuno di noi. Quando il celebrante, nel momento della consacrazione, elevava l’ostia (Hoc est enim corpus meum) essa si trovava allineata con il corpo di Cristo e con l’angolo della pietra profetica. Il messaggio non poteva essere più efficace e più immediatamente comprensibile.

Un dito ci ha toccato. Quella carne ci ha salvato.

BUONA S. PASQUA !

Alessandro

*Alessandro prof. dott. Tamborini

Plenipotenziario per le politiche di tutela e promozione del patrimonio storico-artistico-demo-etno-antropologico. Docente di Scienze Religiose, Storia e Simbolismo dell’Arte Antica e Medievale.

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