“The war is over”, ha scritto all’annuncio del Brexit Deal, via Twitter, con tono di vittoria, Nigel Farage.

In effetti, a vedere i contenuti del Deal, più che di un accordo sembra di essere di fronte ad una resa senza condizioni da parte della UE.

Alla faccia di tutto il consenso massmediatico che da anni dipinge l’Inghilterra come una piccola isola di pescatori affamata e allo sbando, scopriamo che, alla fine, è stata Londra a vedere accettate praticamente tutte le proprie richieste, formulando una Brexit decisamente ‘hard’.

In primo luogo, l’accordo non copre, su richiesta britannica, alcunché che riguardi la politica estera e la difesa. Dal primo gennaio il Regno Unito, su tali materie, sarà totalmente sovrano. Prevista l’uscita del Regno Unito anche da tutti i trattati internazionali firmati dall’Unione Europea.

Sempre su richiesta britannica, l’accordo non copre i servizi finanziari. Londra rinuncia al famoso ‘passaporto europeo’ e ha invece richiesto e ottenuto di negoziare accordi di riconoscimento reciproco con le autorità nazionali dei 27 paesi membri sul principio dell’equivalenza dei servizi prestati.

Evidentemente, data la superiorità del settore finanziario britannico rispetto a quelli degli altri paesi europei, a Londra si confida – correttamente – che non sarà un problema ottenere il riconoscimento che i propri servizi siano quantomeno ‘equivalenti’ a quelli prestati nei vari paesi membri della UE.

Questo significa che, evidentemente, gli inglesi, e così i mercati, ritengono conveniente liberarsi della pachidermica regolamentazione in ambito finanziario della UE e che del ‘passaporto europeo’ non sanno che farsene.

Il temuto ‘tsunami finanziario’ con annessa ‘fuga dalla City’ non lo abbiamo visto per quattro anni e continueremo a non vederlo.

Tra parentesi: tutto ciò significa anche che a Londra si ritiene più efficiente che la Bank of England comunichi direttamente con la Bundesbank, la Banque de France, la Banca d’Italia, etc… senza passare per la BCE. Chissà come mai, da noi l’idea che la Banca d’Italia non possa interagire direttamente con la Bundesbank e la Banque de France senza la BCE sembra non pervenuta.

Resta poi l’altro grande tema: quello del Commercio e del Mercato Unico (che doveva essere il punto forte dei negoziatori di Bruxelles).

Dal 2016, i sostenitori britannici di una ‘Soft Brexit’ postulavano l’ipotesi di uscire dall’Unione Europea ma di conservare l’adesione al Mercato Unico e/o il mantenimento dell’Unione Doganale con il continente (cosiddetto modello ‘norvegese’).

Principalmente su questo punto era caduto il governo di Theresa May per l’opposizione dell’ala destra del partito conservatore ed era stato eletto a valanga Boris Johnson (evidentemente, nel 2019 l’elettorato britannico non era affatto ‘pentito’ della Brexit, come ancora oggi ci raccontano certi giornalisti).

L’accordo prevede l’uscita del Regno Unito dal Mercato Unico e dall’Unione Doganale, come si legge dal sito della Commissione Europea: “L’UE e il Regno Unito formeranno due distinti mercati e due spazi regolamentari e legali”.

Ciò significa che il Regno Unito non sarà più soggetto ad alcun regolamento o direttiva europea. Tutta la legislazione europea è rimossa dal Regno Unito e nel futuro Londra non sarà obbligata a recepirne alcuna di nuova.

Il Regno Unito esce da Schengen e riassume il controllo delle proprie frontiere, ponendo fine anche alla triplice libertà di movimento di merci, servizi e persone.

Al Mercato Unico è sostituito un accordo di libero scambio che prevede zero dazi e tariffe da ambo le parti. Il trattato di libero scambio, come già detto, salvaguarda la facoltà di ‘disallineamento legislativo’ di Londra dai regolamenti europei.

Non pervenuta la richiesta di Bruxelles di ‘allineamento automatico’ delle leggi britanniche a quelle europee in ambiti attinenti a materie commerciali, come non pervenuta la facoltà della Corte di Giustizia Europea di esprimersi nel caso di controversie di natura commerciale tra le parti.

I casi di controversie di tipo commerciale, che potrebbero derivare dal disallineamento legislativo, saranno trattati da un ‘Joint Partnership Council’ di composizione paritaria. Resta salvo, in caso mancato accordo sulla modalità di trattare le divergenze, il diritto di entrambe le parti di imporre dazi o altre limitazioni al libero commercio.

La formulazione di un trattato in questi termini è estremamente importante, poiché fa cadere il mito che per ottenere i benefici del libero commercio sia necessario operare cessioni di sovranità e limitazioni alla libertà politica e di autogoverno delle nazioni. Il libero commercio, come inteso dal Brexit Deal, non è un rapporto istituzionale capace di far sorgere nuovi organismi sovraordinati a quelli nazionali – come è stato il caso per i trattati di Maastricht e di istituzione del mercato unico europeo, che hanno fatto sorgere la Commissione Europea al di sopra delle nazioni – il libero commercio è ricondotto correttamente alle scelte di convenienza che una nazione esercita nell’esercizio della sua sovranità politica.

Sullo spinoso tema della pesca, sono ridotte del 25% per cinque anni le quote concesse ai pescatori UE; successivamente, le quote andranno riviste anno per anno, un altro miglioramento netto per gli inglesi rispetto allo status quo.

Per quanto riguarda gli altri programmi europei e il Multiannual Financial Framework 2021-27 (il budget dell’UE), il Regno Unito non sembra chiamato a pagare alcun ‘assegno di divorzio’ com’era invece nel Deal elaborato da Theresa May.

Ovviamente, il Regno Unito non aderirà al Next Generation EU, peraltro dimostrando così l’inutilità economica dello strumento per fronteggiare la grande recessione mondiale indotta dal Covid.

Prevista anche l’uscita dal famigerato Erasmus.

Londra continuerà invece ad aderire e a contribuire alle spese di alcuni programmi specifici dell’UE, il più rilevante il programma Horizon, che prevede la concessione di finanziamenti alle imprese innovative.

Anche questo approccio ai programmi europei, come per i servizi finanziari e il commercio, ci potrebbe suggerire un nuovo paradigma sul come porci in Europa: non si potrebbe forse concepire un’Europa fatta di programmi condivisi, ai quali le nazioni potrebbero liberamente aderire o meno, rivolti ad ambiti di sviluppo industriale specifici e circoscritti, senza dover creare istituzioni centrali onnivore di competenze a cui cedere la propria sovranità?

Non si può sostituire ai regolamenti e alle direttive di un organismo irresponsabile come la Commissione e tutta l’annessa pletora di agenzie europee, un trattato di libero scambio ricalcante i termini dell’accordo britannico?

Non si potrebbero sostituire alle istituzioni finanziarie di Francoforte, all’Eurosistema etc., una rete di collaborazione di Banche Centrali e Autorità di Vigilanza?

Non si potrebbe sostituire alla vagheggiata ipotesi di esercito comune europeo o di difesa comune, un trattato di alleanze difensive?

La risposta a tutte queste domande è ovviamente sì, se non altro perché un ex-paese membro l’ha già fatto. Perché non potrebbero essercene degli altri?

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