L’eredità più tremenda e duratura del Novecento, il secolo delle ideologie, è il marchio di maledizione che segna gli sconfitti, gli uomini che hanno combattuto dalla parte sbagliata. Maledetti a prescindere e senza appello perché hanno creduto, hanno vissuto e sono morti per le rivoluzioni nazionali che tentarono l’ultima battaglia contro la modernità. Chiamate genericamente “fascismi”, queste esperienze vanno oltre la cronaca politica degli anni tra le due guerre mondiali: al cospetto della dissoluzione del mondo moderno e dei suoi derivati, mostrano anzi che i loro contenuti sono stati condannati soltanto dalla storia scritta dai vincitori. Con la serie “Maledetti vi amerò”, che inizia da Corneliu Zelea Codreanu, Ricognizioni intende rendere omaggio alla vita e all’opera degli uomini che ne furono i protagonisti.

Non i sicari della sovversione, non il plotone d’esecuzione di un esercito invasore, né la teppaglia di piazza assassinarono Corneliu Zelea Codreanu all’alba del 30 novembre 1938 poco fuori Bucarest. Il comandante della Guardia di Ferro, guida della rivoluzione nazionale rumena, sociale e restauratrice, fu messo a morte per ordine di re Carol II, ispiratore di un regime autoritario di destra. L’uomo che prometteva di restituire al proprio destino una Romania, umiliata dai cascami della democrazia e depredata dalle voglie della grande finanza, aveva trovato un nemico letale nelle forze della conservazione. Era l’epilogo di una guerra tra mondi inconciliabili e irriducibili, l’ultimo atto di una storia in gran parte già scritta sullo scenario d’Europa e chissà se il finale sarebbe potuto essere diverso. Non lo fu.

Nel primo resoconto ufficiale dell’assassinio si sosteneva che Codreanu, condannato a dieci anni di carcere, fosse stato ucciso assieme a tredici suoi camerati durante un tentativo di fuga. La cronaca veritiera venne scritta solo un anno e mezzo più tardi, dopo l’abdicazione di Carol II, durante la fugace partecipazione della Guardia di Ferro al governo del generale Ion Antonescu: “Il 29 novembre 1938, alle ore 10 di sera” si legge nella dichiarazione del maggiore Constantin Dinulescu alla commissione d’inchiesta “Codreanu e i suoi camerati furono rimossi dalla prigione di Râmnicu-Sărat, dove erano rinchiusi, e caricati su un camion. I Legionari furono messi così da poter vedere solo avanti, essendo legati con le braccia dietro la schiena. Essi non potevano fare neanche il più piccolo movimento, ed erano costretti a stare sempre con la testa rivolta verso l’alto. Dietro ognuno di loro era seduto un gendarme. Io stavo seduto accanto al conducente. Si viaggiava per la strada tra Ploiesti e Bucarest, quando all’alba del 30 novembre, dopo che diedi il segnale fissato, con la torcia, i gendarmi tirarono fuori dalle loro tasche una corda che strinsero al collo di ogni Legionario. Così, Codreanu e i suoi 13 camerati sono stati strangolati, mentre l’auto continuava per la sua strada a tutta velocità. Poco tempo dopo arrivammo a Bucarest, dove proseguimmo fino alla fortezza di Jilava, all’interno della quale era scavata, da tre giorni, una grande fossa. Dopo l’entrata del camion nel forte, sopra i cadaveri strangolati si sparò – secondo l’ordine impartito dal Primo Procuratore militare, col. Zeciu – un colpo di revolver o fucile (per simulare la reazione un tentativo di fuga, ndr); (…) tuttavia dopo due giorni i cadaveri furono dissotterrati e portati in un’altra fossa. Su di loro furono versate diverse bottiglie di acido solforico; poi vennero coperti con la terra, e sopra fu apposta una lastra di cemento pesante”.

Ancor più che nella spietatezza dell’esecuzione e nel vilipendio dei cadaveri che evocano la fine dello zar Nicola II e della sua famiglia, la cifra di questo episodio si coglie nella messa in scena del tentativo di fuga dei prigionieri che ne legittimasse l’uccisione. Il potere iniquo non può esimersi dal celare la propria perversione dietro la maschera della norma e della legalità, ultima menzogna oltre la quale si rivelerebbe il nulla che lo sorregge. E non si tratta di una prerogativa rivoluzionaria. Nelle terre d’Europa in cui non era ancora arrivato il terrore dei Soviet, il vecchio mondo ottocentesco si batteva con ferocia pari a quella della sovversione per non sparire definitivamente dalla storia: non tollerava avversari credibili e testimoni attendibili.

I suoi legali rappresentanti amoreggiavano senza ritegno con le democrazie oligarchiche, patteggiava volentieri con il comunismo internazionale, ma non potevano trovare intesa con le rivoluzioni nazionali sorte dopo la Grande Guerra. Il legionarismo guidato da Codreanu rappresentava in Romania quello che, pur con caratteristiche diverse, significavano il fascismo in Italia, il falangismo in Spagna, il nazionalsocialismo in Germania, il rexismo in Belgio, solo per citare qualche esempio: un’idea sociale e restauratrice, metapolitica prima che politica, capace di dare al futuro forme, contenuti e visioni tratte da un ordine anteriore a quello morto nella guerra civile europea. Giunta a maturazione la consapevolezza della propria identità e del proprio compito, tutti quei movimenti che solo per comodità lessicale si possono genericamente definire fascisti posero un irrevocabile aut-aut alla storia d’Europa, e non era previsto alcun trattato di pace.

Anche da questo punto vista, l’assassinio di Codreanu assume un tratto esemplare che non ha uguali. Mentre la gran parte del ceto dirigente delle rivoluzioni nazionali cadde o venne epurata con la sconfitta militare nella Seconda Guerra Mondiale, il comandante della Guardia di Ferro fu eliminato l’anno prima del conflitto dopo una inequivocabile vittoria politica.

Quando morì, aveva compiuto da poco trentanove anni ed era stato capace di lasciare nella storia della sua terra la traccia profonda del passaggio di un vomero estraneo a ogni compromesso. Nel 1923, a ventiquattro anni, era stato tra i fondatori della Lega di difesa nazionale cristiana. Nel 1927 aveva dato vita alla Legione di Michele Arcangelo che, nel 1930, si era trasformata nella Guardia di Ferro associando oltre un milione di aderenti. Con nuovi partiti fondati ogni volta che il potere metteva fuori legge quelli precedenti, aveva preso parte alle elezioni raggiungendo nel 1937 il 16% dei voti e i 66 deputati di Tutto per la Patria. I legionari lavoravano quotidianamente accanto al loro popolo costruendo case e strade, aprendo cooperative, assistendo economicamente i connazionali ridotti in povertà da una politica asservita alla finanza internazionale. Nel contempo, si dovevano difendere dalle aggressioni, dagli assassini, dalle rappresaglie poliziesche, dai processi manipolati e dalla calunnia diffusa da un regime che, nell’estremo tentativo di mettere fuori gioco un movimento di chiara ispirazione religiosa, aveva arruolato nel governo il patriarca della Chiesa ortodossa rumena Miron Cristea.

L’obiettivo, insieme ascetico e politico, del movimento di Codreanu era la formazione di un “uomo nuovo” capace di opporsi alla deriva democratica per ragioni totalmente altre da quelle riconosciute da un autoritarismo invecchiato presto e male. Il comandante, che i suoi uomini chiamavano Capitano, insegnava che il sistema democratico è naturalmente avversario della Stirpe poiché frantuma il popolo in partiti assetati di potere. Spezza il legame tra vivi e morti negando la memoria, l’unica forma di espressione possibile per gli antenati “i quali sono stati anche loro, un tempo, legati alla nostra gleba, alle nostre zolle e sono morti in difesa di questa terra, rimanendo ancor oggi legati a essa attraverso il ricordo”. Tiene in scacco anche i politici meglio intenzionati attraverso il ricatto del consenso elettorale. È incapace di vera autorità poiché nessuna parte politica può permettersi di sanzionare i propri sostenitori. Fomenta la corruzione per gli alti costi della propria autoconservazione. Non può permettersi di servire i princìpi, la storia e il destino di un popolo e, anzi, li sottopone costantemente al giudizio di un’opinione pubblica manipolabile e, di fatto, manipolata. In definitiva, come diceva il Capitano in uno scritto per i suoi legionari, la democrazia è un’invenzione che nulla ha da spartite con il popolo: “Il popolo è governato da leggi precise. Non si tratta di leggi inventate dagli uomini: ci sono regole, leggi naturali di vita, e regole, leggi naturali di morte. Leggi di vita o leggi di morte: una Stirpe va incontro alla vita o incontro alla morte a seconda del modo con cui rispetta le une o le altre leggi”.

Quanto più si alzava il livello dello scontro, da quello politico a quello spirituale, tanto più si rendeva evidente l’incompatibilità tra il legionarismo e il vecchio regime. Questo aspetto del movimento rumeno aveva colpito un pensatore tradizionalista come Julius Evola, che nel 1938 era stato a Bucarest per conoscere da vicino un’esperienza politica dalle radici così marcatamente ascetiche “Vi sono due entità in noi, spirito e materia”, aveva spiegato Codreanu. “Il loro equilibrio è cosa problematica. La subordinazione del primo alla seconda è l’inferno. La subordinazione della materia allo spirito rappresenta invece la condizione normale, il presupposto di ogni vita etica ed eroica. Il digiuno propizia, come uno dei molti metodi, una simile supremazia, della pura forza spirituale sulla corporeità”. L’incontro si era svolto alla tavola su cui la moglie di Codreanu aveva servito un pasto frugale da cui il Capitano si era astenuto perché quello era uno dei giorni in cui tutti i legionari digiunavano.

Nasce da questa radice il nerbo della visione politica che il comandante della Guardia di Ferro illustrò al filosofo italiano. “Vi sono tre entità: l’individuo, la nazione, Dio. L’individuo va integrato nella nazione. La nazione nella legge divina. La nazione, per noi, è un tutto organico. Comprende i viventi e i morti, forze umane e forze divine: entità etnica e mistica a un tempo. L’individuo si integra nelle leggi della nazione, la nazione nelle leggi divine. Riprendiamo il concetto di comunità, proprio della nostra tradizione, ossia della religione ortodossa. (…) Donde la possibilità di una compenetrazione dell’unità politica con quella religiosa e, altresì, di un eroismo non solo in nome di una grandezza terrena e di un dovere patriottico, ma simultaneamente anche di un misticismo divino. Io concepisco che il vero fine della Stirpe non è nel tempo, ma nell’eternità. La creazione politica, la cultura, la lotta, la grandezza nazionale non sono fini, ma mezzi. Il fine ultimo non è questa vita, ma la resurrezione”.

Pagano e apertamente anticristiano, Evola aveva seminato nel resoconto di quell’incontro una serie di indizi fondamentali per riconoscerne l’essenza tipicamente ortodossa. Forse, il filosofo italiano aveva intuito la possibilità di un cristianesimo estraneo al guelfismo da cui il mondo latino non si era mai veramente liberato. È spiritualmente commovente, ancor più che intellettualmente lodevole, l’onestà con cui lo studioso della tradizione formato in ambiti così lontani ha riconosciuto che la grandezza di un uomo integralmente cristiano discendesse senza equivoco alcuno dalla sua fede.

La sua lezione, forse perché consegnata a brevi scritti, non è stata colta nel mondo occidentale che ha fallacemente cercato di leggere il legionarismo rumeno come appendice criptoromana del cattolicesimo latino o come tributario di ascendenze pagane precristiane. Ma lo spirito di quel fenomeno non può essere spinto su nessuno di questi due versanti: lo dicono palesemente gli scritti di Codreanu e di Ion Moţa, il più lucido teorico del movimento, amico intimo e cognato del fondatore, caduto nel 1937 durante la Guerra di Spagna. Non vi sono pagina di teoria, articolo di giornale, testo di un discorso che non testimonino l’essenziale legame con la fede ortodossa dei legionari rumeni.

Nell’introduzione al Diario dal carcere edito in Italia da Ar, si trova un passaggio di rara profondità che potrebbe avviare il lettore su questa via. Il punto di partenza è un passo del saggio di Z. Barbu sul legionarismo rumeno raccolto nel volume Il fascismo in Europa di Stuart. J. Wolf. A proposito di Codreanu, Brabu dice: “Se si volesse racchiudere in una formula la sua personalità bisognerebbe dire che fu un autoritario sentimentale e mistico. La vena di paranoia che serpeggiava in lui raggiunse le direzioni di una mania religiosa e il motivo fondamentale della sua vita fu la Imitatio Christi. Quindi, non fu l’esigenza dell’azione a dominare la sua concezione del mondo e dell’uomo, ma piuttosto un’ansia di fede e di sacrificio. L’immagine di Cristo che egli assume apertamente a modello della sua vita era il Cristo della Theologia Crucis più che quello della Theologia Gloriae.

Opportunamente e acutamente, il Gruppo di Ar che firma l’introduzione chiosa in una nota: “Occorre essere grati al Barbu per avere centrata l’immagine, anche se capovolta. Raramente sono state impiegate espressioni più appropriate per spiegare la singolarità del ‘fenomeno’ Codreanu. Fu invece la tensione alla ‘gloria assoluta’ – stato che da Bernardo di Chiaravalle viene attribuito alla divinità ‘in excelsis’ – a orientare l’esistenza del Capitano. Il rilievo del Barbu va poi ricollegato ad altri punti di un’analisi che lascia stupefatti per la particolare lucidità e, al contempo, per la inversione di significato che la caratterizza”.

L’osservazione del curatore continua poi riconducendo il concetto di glorificazione nel pensiero di Codreanu a culture e tradizioni estranee al cristianesimo. L’origine di tale interpretazione sta nell’idea che il nucleo essenziale e “buono” della dottrina cristiana sarebbe essenzialmente un residuo di credenze originariamente estranee che vi sono penetrate e vi permangono in forma esoterica.

Ma il cristianesimo ortodosso non necessita di alcun sostrato nascosto per giungere alla Theologia Gloriae, poiché proprio lì sta il suo cuore, aperto a tutti. Questa fede, alimento spirituale del legionarismo, non ha bisogno di dottrine segrete e pratiche celate ai profani, né di separazioni gnostiche tra esseri spirituali, psichici e carnali. È, per essenza, una scuola di ascesi e contemplazione in cui ciascuno riceve la sua parte nell’esperienza del mistero cristiano vissuto dalla Chiesa allo scopo di giungere alla deificazione: la realizzazione non avviene per gradi di conoscenza man mano più raffinata, ma per pratica quotidiana visibile a chiunque. “L’uomo”, diceva San Basilio esemplificando tutto il pensiero patristico confluito nel cristianesimo orientale, “è una creatura che ha ricevuto l’ordine di diventare dio”.

La partecipazione alla vita della Chiesa ortodossa, prettamente ascetica e liturgica, mette ogni singolo fedele nelle condizioni di giungere allo scopo ultimo della sua esistenza, la partecipazione alla vita della Santa Trinità, lo stato deificato dei coeredi della natura divina, possedendo per grazia tutto ciò che la Trinità possiede per natura. È la prospettiva della Theologia Gloriae, che non contempla vie iniziatiche o conoscenze esoteriche poiché, per arrivarci, basta vivere nella Chiesa che la proclama e la pratica.

Codreanu con la moglie Elena Ilinoiu

Senza questa esplorazione nei territori dello spirito, la figura di Codreanu e la natura del suo movimento rischiano di rimanere chiuse dentro a stereotipi che non rendono giustizia né all’una né all’altra. La stessa scelta di Michele Arcangelo come patrono del movimento legionario rimarrebbe limitata al suo ruolo guerriero di archistratega. Ma non va dimenticato che il principe delle milizie celesti si oppose a Satana, ribelle alla Trinità e invidioso fin dal principio del destino di deificazione riservato all’uomo.

Eppure, nel colloquio con Evola, il Capitano lo aveva detto senza esitare: “Il fine ultimo non è questa vita, ma la resurrezione”. I suoi scritti, tra cui Il Capo di Cuib e Per i legionari, sono colmi di questi temi e questi insegnamenti. Ma è soprattutto nel Diario dal carcere, annotato pochi mesi prima di morire tra l’aprile e il giugno del 1938, che l’idea della chiamata a una vita gloriosa si manifesta in tutta la sua radicalità.

Durante la carcerazione per una condanna fondata su prove e testimonianze falsificate, Codreanu aveva trasformato la cella del prigioniero in quella di un monaco. In condizioni di eccezionale durezza, prostrato fisicamente, aggredito psicologicamente, pregava, leggeva e meditava i Vangeli e le Lettere di San Paolo. Aveva ricostruito minuziosamente il suo Calvario ricomponendo e glossando i passi di quello di Cristo. Ma, soprattutto, contemplava la prospettiva della resurrezione.

Santa Pasqua 1938 – 24 aprile. Sarà passata mezzanotte, anche l’una. Non sento le campane annunciare la Resurrezione. Accendo la candela e dico: Cristo è risuscitato!. (…) È resuscitato Cristo seminando in tutto il mondo, fino al termine dei tempi, la speranza: la speranza che non periremo mai sotto la pietra delle ingiustizie, per quanto pesante essa gravi sui nostri deboli corpi. (…) È resuscitato Cristo seminando la speranza della resurrezione dalla morte; perché la nostra vita non finisce qui, in questi transitori 60-70 anni; perché essa si prolunga lassù (…). Caratteristica del nostro tempo: ci occupiamo di lotte tra noi e gli altri uomini e non di lotte tra i comandamenti dello Spirito Santo e i desideri della nostra natura terrena; ci preoccupiamo e desideriamo le vittorie sugli uomini, non le vittorie sul Diavolo e i peccati. Tutti i grandi uomini del mondo di ieri e di oggi: Napoleone, Mussolini, Hitler, eccetera sono maggiormente preoccupati di quelle vittorie. Il movimento legionario fa eccezione, occupandosi, ma insufficientemente, anche della vittoria cristiana nell’uomo, in vista della sua deificazione. Insufficientemente! La responsabilità di un capo è grandissima. Egli non deve lusingare le su schiere con le vittorie terrene, senza prepararle nello stesso tempo alla lotta decisiva per la quale l’anima di ognuno possa incoronarsi con la vittoria eterna o la sconfitta eterna”.

Dopo tanti anni, le pagine del Diario continuano a essere esemplari per la finezza e la densità spirituali di cui sono testimonianza. La gioiosa sincerità in cui il loro autore confessa di aver ritrovato la Speranza dopo aver letto i quattro Vangeli e di averla finalmente riannodata con la Fede e la Carità che non erano mai andate perdute mostra quanto fosse levigato il suo spirito dentro un corpo e un animo provati fin sul limite della resistenza. Nella sua cella, Corneliu Zelea Codreanu aveva ormai raggiunto quella condizione spirituale che si chiama sprezzatura, la capacità di non farsi raggiungere se non da ciò che è inevitabile. Cristina Campo descrive questo stato come “briosa, gentile impenetrabilità all’altrui violenza e bassezza, un’accettazione impassibile – che a occhi non avvertiti può apparire callosità – di situazioni immodificabili che essa tranquillamente ‘statuisce come non esistenti’, e in tal modo ineffabilmente modifica”. Che cos’altro, se non la consapevolezza che la sua reclusione ormai non è più quella del carcerato, può indurre un prigioniero oppresso e sfinito ad annotare parole come queste? “Da alcuni giorni passeggia qui per la cella una cavalletta verde. Quando mi corico si avvicina al mio letto. Ieri sera voleva mettersi sulla mia testa. Ho cercato di cacciarla. Si è spaventata, è saltata via ed è scomparsa. Questa mattina l’ho trovata schiacciata sotto la stuoia. L’ho presa e l’ho curata per un’ora. Le ho dato acqua in cui ho messo un po’ di zucchero in polvere. Ha bevuto. Si è ripresa ed è volata via”. Corneliu Zelea Codreanu, carcere militare di Jilava, venerdì 10 giugno 1938.

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