Ha suscitato reazioni contrastanti la visita del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, assieme al collega sloveno Borut Pahor, alla Foiba di Basovizza, luogo simbolo della tragedia che colpì il confine orientale dalla guerra civile alla fine della dittatura titina.

La foto ritrae i due presidenti, mano nella mano, in rispettoso silenzio davanti al monumento. Da questo punto di vista, tale manifestazione dovrebbe rappresentare un punto di svolta, volto ad una pacifica risoluzione di una controversia che dura da decenni. Purtroppo, gli eventi che hanno preceduto e seguito questa visita ci dicono il contrario. 

Esattamente 100 anni dopo l’incendio che distrusse il Narodni dom, un edificio che conteneva varie attività gestite dalla comunità slovena di Trieste e che fu ristrutturato qualche anno dopo e adibito a differenti usi, si è deciso di restituirlo alla comunità slovena, come segno di riconciliazione e, ovviamente, come rifiuto del fascismo. Il palazzo in effetti fu dato alle fiamme nel 1920 dagli squadristi giuliani, ma il fatto rientrava in un più ampio ventaglio di eventi che seguirono la vittoria dell’Italia nella Grande Guerra. Fino al trattato di Rapallo, infatti, le relazioni tra il Regno d’Italia ed il neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (che diventerà Regno di  Jugoslavia) erano molto tese: la vittoria mutilata, la questione di Fiume e soprattutto i conflitti etnici innescavano, da Trieste a Ragusa, scintille che sfociavano spesso in guerriglie. Come in ogni conflitto, bellico e non, esistono eccessi da ambo le parti, azioni eroiche ed azioni vigliacche; ma liquidare il tutto con la solita dicotomia “fascismo=torto” e “non fascismo=ragione” denota disonestà intellettuale. Bisogna infatti considerate il fatto che le tensioni italo-slave avevano origini più antiche, da ricercarsi nella cessione della Serenissima Repubblica di Venezia all’Impero Asburgico: fu proprio la migrazione forzata delle popolazioni slave sul litorale, causata per indebolire ogni forma di irredentismo italiano, a scatenare i conflitti che culminarono nell’incendio. 

Ma l’evento che ha scatenato più polemiche è stato l’omaggio dei due Presidenti al monumento commemorativo dei quatto fucilati del TIGR, un’associazione terroristica che aveva come fine l’annessione della Venezia Giulia, dell’Istria e del Quarnaro alla Jugoslavia. I quattro furono responsabili di una serie di attentanti e, in quanto terroristi, furono processati e giustiziati a Basovizza. In Slovenia, ma non solo, sono considerati eroi nazionali e vengono ogni anno commemorati. 

Questo tentativo di riappacificazione sembra più uno scambio che una voglia di ricordare le vittime. Ci saremmo aspettati una condanna bilaterale dei crimini titini, dei quali comunque l’attuale Repubblica di Slovenia non ha colpe; invece si vuole ancora alimentare una diatriba silenziosa, nella quale solo il ricordo delle vittime ne fa le spese. Si sono messi sullo stesso piano innocenti infoibati e terroristi, stiamo chiedendo scusa per colpe non nostre, addirittura vi è chi difende il regime di Tito colpevole di eccidi sia di italiani che di jugoslavi (compresi molti comunisti più inclini alla linea staliniana). 

Inutile anche utilizzare l’aggressione fascista come scusa per giustificare quanto compiuto da Belgrado. La guerra e l’annessione di Lubiana furono solo il pretesto per attuare un progetto già pensato da tempo (come dimostra, infatti, la già citata TIGR) e solo lo scoppio della Guerra Fredda ne impedì la completa realizzazione. Nelle mire jugoslave, infatti, vi erano anche Trieste e forse Venezia, i due porti più importanti dell’Adriatico settentrionale. 

Nello stesso giorno, uno scrittore di origine slovena, omonimo del Presidente, riceveva un’onorificenza italiana ed una slovena, pur sostenendo che “le foibe sono una balla”

In conclusione, noi lasciamo alla Slovenia il diritto di celebrare chi vuole, auspicando ad una maggiore autocritica storica, ma non possiamo accettare che gli eredi di chi tanto male fece al nostro Popolo vengano a pontificare da noi e a darci lezioni di morale. Migliaia di esuli istriani, fiumani e dalmati, a differenza della comunità slovena, non furono mai risarciti delle perdite subite; anzi, spesso vennero considerati degli impostori, delle pedine del neofascismo, dei fuggiaschi. Al contempo, l’Italia deve prendere una posizione più forte sulla questione del confine orientale che, sembrerebbe, tutt’altro che chiusa. 

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