Di quali notizie così “strategiche”, tali da giustificare un interrogatorio così selvaggio, poteva essere latore il povero Giulio Regeni? Il sindacato dei venditori ambulanti del Cairo, col quale il nostro concittadino aveva dei contatti, non ha lo stesso peso politico e sociale del “bazar” di Teheran o di Istanbul, che sono realtà in grado di condizionare gli equilibri di politica interna dei loro Paesi. Allora, per quale ragione accanirsi così tanto con un interrogatorio fino ad ucciderlo di botte?

Quando vogliono sapere qualcosa, Polizia e Servizi di tutto il mondo non hanno bisogno di sporcarsi le mani e la reputazione in quel modo così barbaro, tanto in voga in certi film che fanno testo nella fantasia dei non addetti ai lavori.

E allora, vien da chiedersi:

  • Per quale ragione far ritrovare il corpo?
  • Per quale ragione non organizzare una messinscena più credibile?

È evidente che i responsabili egiziani di Polizia e Servizi sono stati colti di sorpresa, perché le comunicazioni iniziali, così importanti in questi casi, sono state gestite malissimo, senza un minimo di preparazione e quasi come se, colti di sorpresa, si fossero trovati fra le mani una patata bollentissima.

Inizialmente, le dichiarazioni ufficiali hanno riferito trattarsi di incidente stradale; a questa dichiarazione ha fatto seguito una sapiente azione di contro-informazione, che ha subito fatto trapelare le bruciature di sigaretta.

A questo punto, sulla base di quella imprudente comunicazione della polizia riguardante l’incidente stradale, facendo leva sul fatto che in Egitto vige uno stato di polizia, è stato facile far sorgere il sospetto di tortura: un pesante interrogatorio finito male. A sostegno di tale tesi c’è il solito sillogismo: gli Stati di polizia torturano, l’Egitto è uno stato di polizia, quindi il povero Regeni è stato torturato.

Ma c’è sempre un ma: a cosa sarebbe servito interrogare così pesantemente Regeni, se non a martellarsi gli zebedei come Tafazzi?

È evidente che il giovane Regeni sia stato torturato, ma non per estorcergli informazioni, ottenibili con metodi molto meno invasivi e meno “tafazziani”, il che fa sorgere il sospetto che sia stato torturato strumentalmente per ottenere un risultato. Quale risultato?

Gli elementi che fan sorgere sospetti non in linea con le considerazioni espresse dai media ci sono tutti:

  • si è subito insistito su un interrogatorio finito male; ma, per quanto ne sappia, i servizi egiziani sono solitamente ben informati e non han bisogno di torturare un cittadino straniero per avere informazioni. Anzi, sanno che, se lo facessero, si tirerebbero la zappa sui piedi;
  • poi, il quartiere dove è stato rinvenuto il cadavere del povero Regeni dovrebbe essere situato nel distretto popolare cairota di Imbaba, denominato anche “repubblica islamica di Imbaba” (dove ai tempi di Morsi sono stati accoppati senza troppa eco numerosi copti, tant’è che da lì se ne sono andati);
  • Regeni era un giovane di esperienza, tutt’altro che sprovveduto e avrebbe saputo far fronte dialetticamente a un qualsiasi commissario di polizia mosso dalla foia di perseguitare oppositori e loro sostenitori (tanto più che precise disposizioni di fare il sorrisino ai giornalisti occidentali erano già state diramate ai vari livelli dei vari reparti di polizia);
  • e poi, quali sono le notizie di interesse che si devono a tutti i costi estorcere a un qualsiasi Regeni che circola tra il Marocco e la Malesia? Per esperienza, nessuna. Nessuna che non sia acquisibile con una tecnica di intelligence meno suscettibile di creare uno “sputtanamento” internazionale.

A chi giova, allora, un delitto così efferato, inutile e sospetto? Sicuramente non all’Apparato di Sicurezza egiziano e meno ancora ad Al-Sisi.

Certo, non si può escludere l’azione di alcuni poliziotti violenti o infedeli; ma il grido levatosi immediatamente dopo la scoperta del cadavere del nostro concittadino aveva il sapore di uno slogan preconfezionato, più banale che sentito: «In Egitto vige un regime di polizia». Che scoperta!

Qualche minuto dopo il rinvenimento del cadavere, i siti vicini ai Fratelli musulmani hanno subito dato la notizia di segni di tortura sul corpo. E la notizia si è immediatamente propalata in una Europa sensibile all’argomento dei diritti umani e plagiata dalla Fratellanza musulmana, acerrima nemica di Al-Sisi (salvo chiudere gli occhi sullo scempio che, dei cosiddetti diritti umani, si fa in altri paesi ove i fratellini musulmani imperano).

Il dato di fatto, ora, è che siamo di fronte ad una indagine in cui le variabili sono molteplici e i sospettati, a rigor di logica, sono due:

  • alcuni solleciti poliziotti violenti e/o infedeli che hanno soddisfatto proprie indegne pulsioni, oppure hanno risposto a ordini occulti di qualche apparato infedele del Ministero dell’Interno egiziano che rema contro Al-Sisi, ossia poliziotti infiltrati dalla Fratellanza musulmana (immagino ce ne siano molti in Egitto, come molti ce ne sono ancora nella Tunisia del post-Primavera araba);
  • gli islamisti del quartiere Imbaba, allo scopo di somministrare una polpetta avvelenata al regime di Al-Sisi.

Se fossi un magistrato italiano, gradirei sentire anche la professoressa universitaria inglese “mentore” del giovane Regeni. E ciò perché:

  • il guasto nei rapporti tra l’Italia e l’Egitto, verificatosi in seguito a quel brutto episodio, a qualcuno giova; e, guarda caso, giova alla Gran Bretagna, per numerose ragioni, non ultima la scoperta da parte di Eni di un enorme giacimento di gas vicino a Damietta; qualcuno dice che la sopra menzionata professoressa universitaria “tutrice” del giovane sia un’attivista anti Al-Sisi e simpatizzante della Fratellanza musulmana;
  • in questo caso, accontentarsi di una verità che puzza di artefatto lontano un miglio non è utile nemmeno alla Realpolitik, perché fa il gioco di chi ha indotto il giovane Regeni a farsi inconsapevole strumento di giochetti sporchi, mirati sia a fare lo sgambetto ad Al-Sisi sia a sloggiare l’Italia dall’Egitto.

Egitto che qualcuno, in Gran Bretagna, continua a considerare proprio territorio di caccia, e di cui l’Italia sarebbe un partner affidabile per un equo sfruttamento delle risorse energetiche appena scoperte dall’Eni

In fondo, mutatis mutandis, sembra l’affare Mattei che si ripete.

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