Tra gli “uomini forti” dei regimi autoritari del secolo scorso poco si è scritto su Omar Torrijos, passato come una meteora attraverso i convulsi anni settanta dove lotta armata, golpe e guerre civili sconvolsero molte nazioni ispano-americane, in particolare nella regione centrale del nuovo mondo.

Nato a Santiago de Veraguas, Panama, in una famiglia modesta, da genitori entrambi insegnanti, frequentò la famosa accademia salvadoregna General Gerardo Barrios; dopo la sua nomina a comandante della Guardia Nacional, il 12 ottobre 1968 con un colpo di Stato assunse il potere, ascendendo al grado di Generale e rimanendo per tredici anni l’uomo forte della nazione, anche se non assunse mai la carica di presidente, ma quella di Líder Máximo de la Revolución panameña.

Acceso nazionalista, di tendenze progressiste, ma anticomunista, la sua dittatura fu la dittatura della sua personalità e della sua diplomazia. Dotato di umanità ed empatia, fu sempre vicino alle fasce più povere della popolazione; sensibile ai loro problemi, odiando dogmi e inutili burocrazie li risolveva in maniera pratica. C’era bisogno di un acquedotto in un villaggio? Lo faceva costruire senza tanti belati. Rispettò la proprietà privata dando anche impulso a una legislazione fiscale agevolata ma promosse la costruzione di opere pubbliche, una riforma agraria che assegnava terre ai contadini e una riforma scolastica che ampliava l’accesso effettivo all’istruzione.

Il suo ufficio era un’amaca nel giardino di una sua casa situata sulla costa del Pacifico, dove riceveva ospiti e visitatori. Torrijos era il classico caudillo che non esitò a incarcerare gli oppositori, che si trovavano soprattutto all’estrema sinistra, o a espellerli dal paese. Durante il periodo della sua dittatura – 13 anni – si sarebbero registrati, secondo alcune fonti, circa duecento casi di delitti politici ma sarebbe azzardato attribuirli a una sua precisa volontà. Era un uomo autoritario ma non un sanguinario.

Tenne buone relazioni diplomatiche e anche personali con molti capi di Stato – fra questi Fidel Castro – a accolse sia rifugiati cileni sia rifugiati cubani; nel 1979 su richiesta di Carter diede anche rifugio alla Scià di Persia, fuggito dopo la rivoluzione islamica. Sostenitore di una politica di non-allineamento e per questo amico e ammiratore di Tito (cosa inaccettabile per noi ma su Torrijos non gravava alcun obbligo di condividere i nostri sentimenti al riguardo) capì che sfidare la potenza statunitense non avrebbe portato a nulla. Ciò non gli impedì di promuovere un’azione congiunta, insieme agli altri paesi centroamericani, per imporre alle imprese bananiere nordamericane – la Standard Fruit e la United Brands in testa, che dalla fine del secolo passato avevano accumulato immensi guadagni facendo il bello e il cattivo tempo nei paesi produttori  – dazi di esportazione più alti di quelli di cui esse godevano da decenni. Fu sua l’iniziativa della costituzione della Unión de Países Exportadores de Banano (UPEB) e fu per merito suo se in Centroamerica, al termine di un vero e proprio braccio di ferro che portò tutta Panama a stringersi attorno al suo capo, si giunse a rinegoziazioni più eque con quelle multinazionali, facendo il Paese partecipe dei benefici di quel lucroso commercio.

Il suo capolavoro politico fu però la firma degli accordi del 1977, chiamati Carter-Torrijos, con cui gli Stati Uniti riconoscevano, sia pur gradatamente e con pienezza dal 31 dicembre 1999, la sovranità panamense sul corridoio del canale – che i precedenti trattati avevano assegnato in perpetuum alla potenza nordamericana.

Questo risultato, sancito dall’approvazione del congresso statunitense grazie anche alla collaborazione di John Wayne, di cui Torrijos era amico, e che spezzò il fronte del partito repubblicano, contrario agli accordi, sancì la fine di una enclave che dalla proclamazione dell’indipendenza, nel 1903, passando per il completamento dei lavori del canale, nel 1914, aveva spaccato il paese in due tronconi.

D’accordo con Carter appoggiò la guerriglia sandinista ma quando Fidel Castro con la collaborazione del leader rivoluzionario nicaraguense Daniel Ortega, incoraggiò e sostenne la guerra civile in El Salvador, Torrijos – diventato la sponda regionale dell’internazionale socialista (capeggiata da Mitterand e Felipe Gonzales) che intendeva intervenire con una soluzione politica del conflitto capace di ammortizzare la strategia castrista, si mise di traverso.

Divenne infatti interlocutore del gruppo chiamato FARN capeggiato da Ernesto Jovel, il quale mal sopportava la tutela cubana e che non intendeva partecipare alla  Dirección Revolucionaria Unificada – ossia l’unione dei gruppi armati  pretesa dal leader cubano – cercando di spezzarne l’unità e mantenne relazioni con alcuni ufficiali dell’esercito salvadoregno che nel 1979 avevano realizzato un golpe in una chiave di pacificazione nazionale.

La scomparsa di Jovel in un incidente aereo – nel tragitto che da Managua lo stava portando proprio a Panama; il velivolo non fu mai ritrovato  – determinò l’immediato riallineamento di quella formazione che aderì quindi al fronte unitario che prese il nome di FMLN (il fronte Farabundo Martí).

Omar Torrijos ne condivise la sorte l’anno successivo, il 31 luglio del 1981, in un volo interno. Un libro recente accusa la CIA della sua morte, motivata dalle sue pretese intenzioni di concedere al Giappone un’altra apertura interoceanica. In verità non esiste nessuna prova tecnico-scientifica che conforti la natura non accidentale della caduta dell’aereo, avvenuta in condizioni atmosferiche di estrema pericolosità. Una commissione panamense accertò che sui resti della carcassa non vi erano tracce d’esplosivo. I suoi amici e stretti collaboratori dubitarono, in ogni caso, d’una ipotetica responsabilità degli Stati Uniti visto che Torrijos in quel momento stava contrastando i disegni cubani e fungeva da moderatore nella complicata situazione centroamericana; anzi rappresentava, con la sua politica di non-allineamento un riferimento alternativo a Fidel Castro per i movimenti di liberazione latinoamericani. Tutto il popolo panamense pianse la sua morte dimostrando quanto affetto e riconoscenza  nutrisse per lui.

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