Alcuni giorni fa gli organi stampa imboccati dalle autorità militari che dal 2001 stanno cercando di sistemare l’Afghanistan secondo canoni democratici occidentali (proprio una ganzata!) hanno informato che i Talebani, dopo aver riconquistato 160 dei 370 distretti dell’Afghanistan, entro 90 giorni, subito rettificati in 60 e poi in un mese, avrebbero ripreso Kabul.

Ebbene, alla faccia degli analisti che hanno dato quei numeri al lotto – 90, 60 e poi 30 – Kabul è stata occupata il 15 agosto, con tanto di fuga del presidente della repubblica ed evacuazione, braghe in mano, delle migliori diplomazie e FF.AA. occidentali. Una débacle che più vergognosa non si può.

Ma chi sono i Talebani, che dall’oggi all’indomani hanno avuto ragione di un esercito che è stato addestrato per 20 anni dagli eserciti di quello che, a spanne, viene definito l’Occidente, la Nato?

Letteralmente, i Talebani o «Taliban» sono gli «studenti», ovviamente di scuole coraniche di matrice salafita dell’Afghanistan e delle aree regionali confinanti (Pakistan, Tajikistan, Uzbekistan, Turkmenistan, financo qualche zona frontaliera con l’Iran).

Mutatis mutandis, la genesi del movimento dei Talebani sembra ricalcare quella dell’«ordo clericalis» dei chierici vaganti, ossia quell’importante gruppo sociale composto da studenti delle Scuole Cattedrali nell’Europa del 1200 circa. Solo che i Talebani non sono mai stati dediti alla goliardia, sono armati e, soprattutto, non dipendono da nessuna autorità assimilabile a quella del vescovo della Chiesa Cattolica in grado di flemmatizzarne le intemperanze sul piano spirituale. L’unica autorità che riconoscono è quella dello ‘oulema (dotto in cose islamiche), che si fa carico di impartire la retta via coranica alla sua tribù.

Questi studenti religiosi hanno fatto presto a diventare moujahiddin dediti sia alla lotta contro l’invasore che alla difesa, al consolidamento e alla espansione dell’Islam, un Islam sostanzialmente salafita, tuttavia marcato da una forte identità regionale.

A partire dal 1992, con la guerra civile afghana, i Talebani hanno soppiantato i «signori della guerra» di clan e  tribù afghane e pakistane, affermandosi come milizia armata e riuscendo a: 

1) realizzare una sorta di tregua, eliminando quei gruppi combattenti che non si allineavano, e imporre un certo ordine (ovviamente islamico);

2) liberare i contadini e i pastori afghani dall’obbligo del pagamento del pizzo ai locali signori della guerra;

3) proseguire quell’opera di alfabetizzazione già avviata dalle scuole coraniche (secondo gli standard voluti dall’Islam, ossia una alfabetizzazione confessionale). 

Nell’area afghano-iraniana-tajika-uzbeka, i Talebani avevano impostato un modus operandi politico mirato alla progressiva realizzazione di un grande emirato transnazionale e tra il 1996 e il 2001, non ancora costituiti in una entità statuale come prassi internazionale comanda, sono stati, guarda caso (!!) riconosciuti diplomaticamente da Arabia Saudita, Pakistan e EAU.

L’organizzazione talebana era ed è ancora inquadrata da una struttura di vertice denominata «consiglio degli ’oulema» sui quali, ai tempi dell’intervento statunitense in Afghanistan, prevaleva da «primus inter pares» il famoso Mullah ‘Omar.

Allo stato attuale non si dispone di dati militari certi e quelli che vengono spacciati per certi, dopo quella sequenza di numeri buttati lì (90-60-30-1, «mamma mia, eccoli!»), non lo sono. Tuttavia, quelli che fino a ieri erano dati per certi, parlano chiaro: nelle province di Herat, Helmand e Kandahar si sono contati più di mille caduti negli scontri con le forze governative che stavano battendo in ritirata e, fino al 14 agosto, i distretti che erano passati sotto il controllo dei Taliban, definito «totale» dai notabili locali, erano 160 su 370… Oggi quel numero è di sicuro arrotondato ampiamente per difetto, e quei notabili chiedevano ai governatori di indurre l’esercito a ritirarsi al fine di evitare i combattimenti, forse nell’intento di salvare quel poco che era ancora salvabile dalla rappresaglia nei confronti di quelle famiglie o quartieri o tribù che hanno fornito un qualsiasi tipo di supporto all’occupante (cioè noi).

Le FF. AA. afghane (addestrate dalla coalizione) non sono state in grado di difendere i centri abitati e si sono asserragliate in aeroporti ed ex-basi della coalizione occidentale (che nel frattempo aveva tolto il disturbo) distanti dalle città investite dall’offensiva e più facilmente difendibili.

In quel contesto, gli Stati Uniti, 20 anni fa promotori e leader dell’offensiva conto i Taliban, che cosa avevano pensato di fare? Semplice, quello che meglio sanno fare: pensare ai bombardamenti minacciando di rischierare i B-52 e le cannoniere volanti AC-130 per aiutare le forze afghane a fermare l’offensiva. Qualche bombardamento c’è stato, forse questione di salvare un po’ la faccia, ma non è servito a nulla.

Questo, in sostanza, è l’approssimativo resoconto militare degli ultimi, ultimissimi, giorni.

Ma è mai possibile che in questi 20 anni la coalizione non sia riuscita a creare le premesse per un’alleanza che vada oltre il supporto aereo tattico a quelle truppe afghane che per 20 anni ha addestrato, al fine di combattere quello che era stato indicato al mondo come il nemico numero uno? È mai possibile che, dopo 20 anni di caccia ai Taliban e di addestramento delle FF. AA. afghane, siamo a questo punto?

Ed ecco che, sulla scia di quella che è stata la madre di tutte le catastrofiche ritirate, ossia l’abbandono di Saigon (la capitale del Vietnam del Sud) avvenuto nel 1975, in maniera solo un poco più dignitosa di allora, l’ambasciata USA a Kabul sloggia, così come sloggiano le delegazioni diplomatiche e i reparti armati. Sloggiano di fronte ai Taliban, erroneamente considerati una banda di straccioni come l’ISIS (errore madornale, generato da una profonda ignoranza del mondo islamico) e fino a ieri considerati tra i più pericolosi nemici del mondo civile.

Per l’onta di Caporetto sono riuscito a farmi una ragione: l’allora Tenente Rommel era piombato all’improvviso sullo schieramento italiano e vi aveva creato un varco attraverso il quale passarono gli austro-tedeschi. Ma a Saigon, e soprattutto in Afghanistan, non c’era nessuno del calibro di Rommel, nessun reparto nemico ha creato un varco improvviso nello schieramento delle maggiori potenze militari mondiali, il varco si è creato nelle teste di legno dei politici occidentali, che di colpo si sono stancati di una guerra senza senso scatenata 20 anni fa e hanno deciso di passare la «patata bollente» a qualcun altro (forse la Cina, la Russia, la Turchia e il Pakistan). 

Ma quel che più indigna fino all’emesi è che questo disastro, che si risolverà in una strage di innocenti, era ampiamente prevedibile, quindi evitabile, e che su quella terra abbiamo lasciato più di 50 tra i nostri migliori soldati.

Non mi scandalizza né mi preoccupa il trionfo dei Taliban, ottimi e sperimentati combattenti, i quali hanno le loro ragioni. Quello che mi offende è la facilità con la quale le forze afghane addestrate dalla coalizione hanno abdicato, il che fa pensare che i nostri caduti possano essere morti invano. 

Ma sappiamo che a fronteggiare i Taliban rimane un pugno di valorosi soldati afghani, alcuni dei quali formati nella nostra Accademia Militare di Modena e addestrati dalle nostre Forze Speciali, le quali tra una missione di ricerca ed eliminazione dei Talebani e un’altra, svolgevano anche una importante funzione di addestramento (in gergo tecnico «mentoring») e, se tanto mi da tanto, conoscendo quei «mentori», ho la certezza che i soldati afghani che hanno deciso di resistere «per l’onore», sapranno combattere da soldati, con efficacia e coraggio, e sapranno essere micidiali senza essere spietati; ma, si sappia, quei valorosi che fino a ieri hanno creduto in noi, stanno andando incontro all’estremo sacrificio: un sacrificio silenzioso che non genererà nessun film tipo «Rambo».  

L’unica consolazione dei loro fratelli d’arme italiani è che i Talebani, la troveranno lunga, molto lunga.

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