L’arte nella sua essenza è genialità rappresentativa, è la potenza espressiva di un’intuizione e di una particolare sensitività e, come tale, all’infuori della pratica politica; ma l’arte è anche manifestazione e specchio di un animus, di un pensiero, di un concetto dell’uomo, e per questo lato non può non rientrare nella sfera della politica, cioè della civiltà storicamente attuata.

Vi sono però estetici, critici, artisti, i quali, mettendo l’accento su ciò che può esser detto purità dell’arte come primordiale intuitività dell’ingegno creativo, negano all’arte stessa la capacità e il dovere di esercitare comunque un funzione formativa, educativa, eticamente profittevole all’ordine, allo sviluppo ideale della collettività sociale e civile. Essi sostengono che l’arte vive di sé e in sé, mentre ogni altro elemento, morale, religioso, culturale, filosofico (cioè, in ultima istanza, politico) che v’insinui non vi rappresenta che una sovrastruttura ed un inutile, e spesso dannoso, appesantimento ed inquinamento.

Non si accorgono costoro che sostenendo ciò essi non fanno altro che manifestare un loro concetto parziale del mondo e della vita; la loro incapacità di concepire le aspirazioni e i bisogni spirituali di tutto l’uomo (e perciò di tutti gli uomini); un loro concetto sterilmente cerebralistico dell’arte come della società umana: concetto secondo il quale la morale, la religiosità, la cultura, la filosofia e gli altri fondamenti della polis sono cose di secondaria importanza, forse senza interesse; in ogni caso di natura inferiore, poiché non possono entrare nella suprema sfera dell’arte senza portarvi disturbo e opacità.

Se non che questa manifestazione implica essa stessa un atteggiamento politico. Manifestazione di anticlassicità, essa implica l’adesione al suo contrario, che è il romanticismo, anzi un’esasperazione e degenerazione di questo. Per usare una terminologia ancora in uso ma ormai screditata e senza più alcun significato certo, chiamerò codesta politica una politica di sinistra, così come quella implicita nel concetto classico potrebbe dirsi di destra.

La verità è che ogni espressione e forma d’arte è, in senso lato,m politica, di destra o di sinistra che sia.

Nella terminologia detta s’intende per sinistra quella parte politica che va dal democraticismo radicale all’estremità del socialismo (comunismo escluso, ché il comunismo, materialista, non può avere arte né pura né meno pura, ma solo un surrogato d’arte propagandistica) ed all’anarchia. Né c’è bisogno di spendere molte parole  per dire quali siano i principi e i caratteri di codesta sinistra politica; essi sono quelli che portano naturalmente,  anzi fatalmente (quantunque quelli che vi aderiscono non sappian forse rendersene conto) , al sovvertimento dei valori e dell’ordine veramente civili, al disprezzo della tradizione, che è fedeltà alle virtù e alle dignità collaudate dal tempo, e pertanto avversione a tutti quei modi di pensare, di sentire, di operare virilmente, insieme, e bellamente che sono (o già dobbiamo dire erano?) del mondo foggiato su modello della Grecia, di Roma e della loro alunna Italia.

Orbene: l’arte che si disinteressa dei profondi valori umani per affidarsi tutta alla fantasia; che mette l’arbitrio  al di sopra dell’ordine; che fa a meno del sapere e della saggezza; che vanta la sensazione fugace, l’istinto, e magari l’inconscio, in luogo della meditazione, dell’armoniosa ragione e della volontà generatrice di stile: che insomma disdegna le gerarchie estetiche, la schiettezza popolare, la superiore moralità, che è humanitas e universalità, per farsi capriccio, gergo e crittografia ad uso di chiesuole e di snobbi; quest’arte fondamentalmente ed aridamente egoistica, decadentistica, anarchica, asseconda (ancorché forse inconsciamente) i piani di smantellamento, di sovvertimento, di livellamento, nell’idiozia e nella incivile bruttezza delle sue produzioni, perseguiti da una certa parte, e per tale ragione funziona anch’essa da documento politico, naturalmente di sinistra.

Ora avviene che da qualche tempo in  qua anche una frazione del mondo intellettuale cattolico s’è buttata in una cosiffatta avventura. Rinnovando le ”istanze”  di quello che fu il “modernismo” di mezzo secolo fa, provvidamente sgominato da un grande Pontefice fatto poi santo, questo ributto di sinistrismo politico ed estetico sta facendo baldanzosamente le sue prove nell’un campo e nell’altro; e se ne vedono i frutti nei suoi metodi di competizione demagogica , nei “Cristi lavoratori” e nelle mostruosità e ridicolezze ch’esso avalla e gabella per “nuova arte” sacra. Né s’accorge questo scalmanato modernismo di nuovo conio che così operando, con estremo stupore dell’universale, non fa altro che contrabbandare nell’ambito della Chiesa cattolica apostolica di Roma i tristi, squallidi spiriti e gli errori dottrinali del protestantesimo, senza neanche aver di questo il rigore moralistico e l’austerità civica che lo distingue.

E qui si tocca davvero il fondo.

Ardengo Soffici

(Il Borghese, 17 aprile 1958)

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