Francesco Boco non solo è un giovane e promettente filosofo bellunese, ma è anche “profeta” nel senso etimologico del termine: parla con coraggio e forza, al posto di coloro che dovrebbero farlo, ma non proferiscono parola poiché caduti nel “peccato originale” di quella concezione positivistica e habermasiana della democrazia che favorisce il relativismo e l’universalismo/cosmopolitismo di matrice illuministica.

L’origine ed il destino dell’Occidente presuppongono, per la loro comprensione, una rocciosa filosofia della storia che si sviluppa nel rapporto, di spengleriana memoria, tra civiltà e civilizzazione (p. 19). Mentre la prima indica lo stadio vitale e creativo, la seconda, viceversa, rappresenta la fase conclusiva e decadente di un ciclo storico.

La modernità, sottolinea molto bene il dott. Boco, è l’epoca della civilizzazione, o meglio della deturpazione crescente dell’essenza umana, smarrita nelle catene del calcolo esatto e, al contempo, imbevuta di quel faustiano spirito di illimitata tensione. In essa, un ego accresciuto a dismisura produce un umanesimo che è mero autocompiacimento di un uomo che considera l’essenza umana solo ed esclusivamente come suo merito.

L’uomo moderno, infatti, è colui che più di ogni altro abita lontano dalla sua origine e non semplicemente in termini storici. Egli è un vagabondo errante nella sua stessa terra natia, che non riconosce ed è incapace di custodirla adeguatamente a causa di quella industrializzazione scientifica e di quella tecnica che estinguono ogni possibilità del dimorare autentico, divenendo gli “immutabili” (secondo il pensiero severiniano), cui l’uomo occidentale non rinuncia in quanto illusoria forma di sicurezza di fronte all’apparente (per Severino) divenire dell’Essere.

È evidente, nel pensiero dell’autore, l’influsso heideggeriano sia sul piano della presa di coscienza del destino dell’Occidente, sia su quello della risposta alla sua decadenza.

Sotto il primo profilo, è noto come Heidegger (1889-1976) individui nel nichilismo il tratto peculiare dell’Occidente che domina la sua storia non già dai sussulti rivoluzionari ottocenteschi, ma fin dalle origini greche. Un’interpretazione che sconvolge le “carte” del pensiero e si condensa in un corso del 1940, che Heidegger stesso volle estrapolare dal Nietzsche del 1961 e pubblicare come testo a sé stante nel 1967.

Il filosofo tedesco ritiene che, se prima di Platone la Verità era intesa come “alètheia”, ossia come un dis-velamento che l’Essere “donava” all’esserci umano, con Platone, invece, vi è la nascita della veduta antropocentrica che comporta l’oblio dell’Essere, in quanto l’ente-uomo si sostituisce all’Essere.

Per Platone, attraverso l’intuizione intellettuale e lo strumento logico della dialettica discorsiva, era possibile conoscere perfettamente il mondo delle idee (si veda, a tal proposito, “La lettera sull’umanesimo” di Heidegger). La verità assoluta era, quindi, accessibile all’uomo-filosofo.

Da qui, allora, la necessità, espressa nel testo della conferenza tenuta l’8 aprile 1936 presso il Kaiser-Wilhelm Institut di Roma dal titolo “L’Europa e la filosofia tedesca”, di ritornare alla vera origine del pensiero occidentale (p. 15). È questo l’unico modo sia per svelare la tragicità dell’universalismo della civilizzazione proprio della visione illuministico-kantiana, che cancella popoli e identità, sia per rifondare la civiltà.

Questo è possibile, secondo il filosofo bellunese, solo se si coglie (p. 226) “la gravità del presentarsi dell’essere”, ossia la sua presenza anche quando non è compreso. Infatti, è unicamente nel suo concedersi all’uomo da parte dell’Essere che ogni popolo sarà in grado di “declinare il mondo che abita secondo il proprio esserci” (p. 254). Non siamo in presenza del “pietrificato” (per Giovanni Reale) Essere parmenideo, ma di un “fatto storico (diveniente) che non si esaurisce nella storia”

Ora, poiché l’Essere heidegerriano non è una sostanza stabile e non è caratterizzato da un’essenza statica che stabilisca, una volta per tutte, che cosa esso sia, dal momento che è quello che è solamente nel fatto di esistere, nella sua concreta esistenza nel mondo, per come si dà di volta in volta, solo se un popolo lo coglie eroicamente nel suo darsi, è in grado di realizzarsi appieno.

In questo modo, per Boco, l’Occidente potrà trovare quella forza unificante idonea a salvarlo dalla civilizzazione imperante. A Francesco il grande merito, con la sua opera, di spronare ad una riflessione filosofica seria, capace di volare sopra la nientità della attuale cultura europea. 

Daniele Trabucco

(Associato di Diritto Costituzionale italiano e comparato e Dottrina dello Stato presso la Libera Accademia degli Studi di Bellinzona (Svizzera)/Centro Studi Superiore INDEF. Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico)

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