In una celebre opera dell’economista e pensatore tedesco Hans Hermann Hoppe, intitolata “Democrazia, il dio che ha fallito” (l’edizione originale è del 2001), si mette lucidamente in evidenza come, nell’epoca della globalizzazione imperante, questa forma di organizzazione del potere politico potrebbe ridursi ad una sorta di remota deità, di entità iperurania da venerare, ma sempre più superflua.

Infatti, da una parte la democrazia stenta a reggere il confronto con altri poteri, in primis quelli finanziari che permeano dal di dentro le istituzioni (non solo nazionali, ma anche comunitarie), da sempre incuranti di confini, avvezzi all’interdipendenza dei mercati mondiali e insofferenti dei limiti imposti dalle specificità dei singoli Stati.

Dall’altra, dopo aver escluso “le leggi degli Dei” e sacralizzato i diritti umani e i diritti civili, essi tendono ad eroderla nel corso delle “loro lotte fratricide per l’affermazione e la sopravvivenza”, grazie al numero di tavoli messi a disposizione dalla globalizzazione:

a) quello giudiziario, che si “alimenta” del “dialogo” tra Corti, consentendo ad un numero ristretto di soggetti, indipendenti dal controllo popolare, di imporre la loro volontà al legislatore (si pensi, a titolo esemplificativo, alla sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale italiana sulla non punibilità, a certe condizioni, del reato di suicidio assistito, dopo aver lanciato un monito/obbligo di intervento alle Camere un anno prima);

b) quello delle diverse “Carte dei diritti”, oltre le previsioni delle Costituzioni degli Stati, funzionali alla loro moltiplicazione che, più che proclamarne il trionfo, ne segnano l’indebolimento (specialmente di quelli originari: famiglia, maternità, vita), in nome di una concezione sartriana dell’individuo quale essere continuamente in divenire.

Anzi, l’opera di natura giurisprudenziale, che favorisce la creazione delle nuove generazioni di diritti, potrebbe, per converso, pervenire ad una reductio ad unum, dal momento che essi verrebbero tutti rapportabili al diritto alla felicità, già previsto dalla Costituzione degli Stati Uniti d’America, e realizzabile sul piano fattuale solo se ogni uomo diventa titolare del diritto a ciò che egli stesso giudica tale.

Non ci rendiamo conto che lo Stato “laico”, che vive di forza propria, è la causa della sua stessa fine e della “nientità del diritto”. È doveroso, dunque, sganciare i diritti ed il potere dal principio maggioritario insito nella democrazia-procedura (Bobbio, Habermas) e da quei meccanismi di continua mutazione che, nell’ordine civile artificiosamente costruito, vengono ufficializzati dal sistema democratico e riscoprire filosoficamente l’essere quale idea innata nella mente, per dirla con Antonio Rosmini (1797-1855), con quell’ordine suo proprio che si rende evidente all’intelligenza dell’uomo.

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