La lancia e il cuore: sono due oggetti, tuttavia possono definirsi come soggetti nella misura in cui sono loro stessi che scaturiscono i fenomeni.
E’ questo il caso de La lancia e il cuore di Giacomo Maria Prati. Un testo agile ma tutt’altro che sintetico, piccolo ma carico di significato. Significato che si tenta di attribuire a questi due
oggetti-soggetti, la lancia e il cuore appunto.
Anche dopo aver letto il libro non so dire se questo significato è correttamente attribuito ma è qui che sta la ragione della cerca mistica, non la si può paragonare ad una ricerca scientifica ove si conclude una legge matematica oggettiva.
Siamo ben oltre l’oggettività, siamo dinanzi al significato stesso della Verità che, ahimé, l’uomo moderno non è più teso a considerare.
Tuttavia consiglio la lettura di questo libro essenzialmente per questo: ritrovare la connessione col Vero, con il significato profondo delle parole, con il mito nella sua denominazione etimologica.
Oltre la battaglia culturale, il libro di Prati si lancia verso quella spirituale, verso la ricerca del trascendente il quale non può essere raggiunto dall’oggi al domani ma necessita di preparazione, prove da superare e virtù morali alle quali rimanere fedeli.
D’altronde siamo nell’immaginario del cavaliere medievale che si, nel testo appare nella sua forma archetipica (Galvano e Parsifal), ma ciò non deve distaccarci dall’orizzonte virtuoso che rappresenta e che quindi può realizzarsi, in ognuno di noi.
E’ l’insegnamento della storia, dove eroi e santi sono diventati tali in virtù dell’ammissione della loro imperfezione umana.
E’ l’insegnamento dei codici cavallereschi, tesi a formare il santo-guerriero.
Vero, non siamo più nel medioevo e sarebbe grottesco imbracciare la spada e salire a cavallo per proteggere gli indifesi
dalle angherie dai malvagi, tuttavia, un altro maestro della Tradizione, Mario Polia, ci insegna che la Cavalleria non è solo un fenomeno storico.
Essa è prima di tutto una via e come tale non muore col tempo, al massimo cambia le sue forme ma i contenuti rimangono così come rimane l’immagine del Graal, non come una coppa antica
dispersa negli eventi dei tempi passati, ma come simbolo di cerca di ogni uomo e donna che abbia voglia e abbia la necessità interiore di risposte essenziali, e per giunta, invisibili: il Graal, la Verità, il Bene, la Salvezza, la Vita..
Sulla figura del Graal e della sua cerca sono stati scritti fiumi di parole nel tentativo di carpirne il segreto, ma soprattutto sono stati sviluppati in proposito punti di vista molteplici: politici, culturali, sociali, mitologici, allegorici, religiosi etc.
Eppure nessuno di essi si avvicina anche solo in parte alla prospettiva di questo saggio.
Il saggio di Giacomo M. Prati, seppur volumetricamente breve, possiede implicitamente sviluppi innumerevoli, considerazioni decisamente teologiche e riflessioni spirituali; è sicuramente un’opera originale tanto nel dispiegarsi dei capitoli quanto nel concludere la sua ricerca della cerca del Sacro Graal.
Sorprende fin dal titolo stesso, tant’è che ad uno sguardo superficiale chi potrebbe immaginare che un titolo come “La Lancia e il Cuore” tratti in definitiva del Sacro Graal?
Eppure al termine della lettura, dopo averlo letto e magari riletto, si può giungere alla conclusione che proprio questo titolo sia la chiave di interpretazione di tutta l’opera, il suggello finale di tutta la cerca, ovvero – non volendo lasciarvi con la soluzione
in tasca, ma solo suggerire – quello di non confondere come spesso si è fatto il contenente – la coppa o il vassoio – con il più importante contenuto – il Sangue di Cristo – .
E’ per questo che l’autore sottolinea continuamente il collegamento mistico tra la lancia che trafisse il costato di Nostro Signore Gesù Cristo ed il Graal, un legame così stretto da essere essenziale per la comprensione stessa delle intuizioni del Prati.
Effettivamente quel che colpisce in modo singolare è proprio il primo lungo capitolo dedicato appositamente al significato della Lancia, al di là del semplice fatto storico, oltre lo spessore del tempo, in cui un caleidoscopio di immagini sommerge il lettore.
Il capitolo dedicato alla Lancia, che si presume di Longino, è un bosco di simboli, una foresta di immagini da cui difficilmente si riesce a non cogliere l’afflato e il mistero.
Dopo averlo letto tutto di un fiato, occorre leggerlo ancora e fors’anche appuntarne tutte le immagini in una serie di elenchi da meditare singolarmente, da approfondire, da apprezzare, da perdercisi dentro, da lasciarci condurre come lo Spirito vuole e dove vuole.
Sicuramente l’autore è cristiano ed il suddetto capitolo difficilmente può essere inteso se non in un pensiero prettamente cattolico, un pensiero che, proprio come la Lancia, taglia, trafigge la storia stessa in ogni tempo, offende – nel senso di colpire, tagliare, fendere – fisicamente il cuore di un Dio fatto carne appositamente per essere colpito al fine di poter effondere come un Dono inestimabile il Sangue Sacro della Salvezza: l’immensa Caritas della Divinità.
Leggendo le prime parole del terzo capitolo, la commozione può prendere il sopravvento, perché la lettura del Percival di Chretien de Troyes lascia la stessa impressione che l’autore descrive magistralmente: una lettura scarna, senza abbellimenti, ma pregna di significati ascosi e proprio per questo di un fascino
irresistibile:
Ogni volta che leggo il Percival di Chretien de Troyes, inevitabilmente, resto stupito. Una narrazione semplice, limpida, asciutta. Quasi disarmante. Sembra un romanzo cavalleresco come molti, eppure – mentre avanzi nella lettura – compaiono segnali strani che non comprendi, ma che ti attraggono e – più progredisci – più la foresta simbolica e allusiva dolcemente si infittisce, fino ad entrare in un labirinto ciclico che non riesci ad abbracciare, né a vedere tutto insieme, come per ogni labirinto. E allora ritorni a leggerlo e non te ne stanchi mai (pag. 85-86).
E’ proprio in questo tipo di racconto che si intuisce qualcosa di profondo, ma non immediatamente comprensibile, una serie di eventi ci vengono narrati che alla fine dobbiamo rileggere sebbene non se ne colga il senso.
E’ un po’, mi si perdoni l’inadeguato paragone, come leggere la Sacra Scrittura: scarna, semplice, apparentemente senza uno stile proprio, ma di una profondità che non ha eguali.
L’autore, nel cercare di capire o di carpire il senso più profondo della cerca del Graal ha preso in considerazione soltanto il Percival di Chretien de Troyes, perché lo ritiene il prototipo, l’archetipo originale di tutta la vicenda, considerando tutti gli altri poemi sul Graal solo delle semplici varianti di questo.
Il Prati è indubbiamente onesto nell’ammettere che molta della
simbologia analogica del romanzo resta per noi incomprensibile, forse perché abbiamo perduto la sensibilità e le conoscenze che possedevano gli uomini del medioevo, tuttavia è riuscito a farci entrare in un mondo, in un pensiero a noi sconosciuto.
Il Prati non intende fare un saggio di tipo culturale e neppure
storico, meno che mai poetico, ma ha voluto rendere concreto e fors’anche attuale la cerca del Graal: la lancia, Percifal ed il Graal, collegati mirabilmente, sono i protagonisti di un’avventura mistica, interiormente spirituale per la cerca della Santità.
Ovvero, tutta la vicenda, nella sua complessità stilisticamente senza aggettivi, non è che la storia di un misticismo perduto, con le sue trappole, che risiedono nel non fare certe domande, con le
sue insidie che pur sembrandoci banali al nostro sentire moderno, in realtà nel misticismo sono minacce importanti, impedimenti dirimenti, ostacoli difficilmente sormontabili alla ricerca.
Non a caso il mistico trova il divino quando non lo cerca e non riesce a raggiungerlo pur cercandolo con tutte le proprie forze umane.
Ritengo che comunque si debba lasciare al lettore trarre le sue conclusioni, ben tracciate dall’autore, su questo mistico viaggio in terre ancora inesplorate, magari con una lettura seguita da un’ulteriore rilettura.