Tolkien e Il Signore degli Anelli: Introduzione allo spirito dell’opera
“Parlare per simboli e figure di un mondo perenne oltre che arcaico, dunque più presente a noi del presente”
Elémire Zolla
“Ciò che nei miti si presenta inverosimile è proprio ciò che apre la
via alla verità. Non affidatevi alla nuda parola, ma affaticatevi intorno alla verità riposta.”
Giuliano Imperatore
Con la trasposizione cinematografica del capolavoro di Tolkien, si sono riaccese le polemiche in merito all’opera tolkeniana degli anni’70, ovvero si ricomincia a parlare di Tolkien neopagano, di Tolkien nazistoide, di Tolkien ecologista, di Tolkien evoliano, di Tolkien no-global, chi lo stiracchia di quà, chi lo stiracchia di là, chi lo vuole di destra, chi lo vuole di sinistra come al tempo dei figli dei fiori di sessantottina memoria.
Il libro, anche negli anni passati, era stato oggetto di congetture da parte di molti intellettuali, scrittori, critici e pensatori di ogni genere e fu definito di volta in volta una fiaba, un romanzo d’evasione, un simbolo dell’estrema destra anni Settanta, un emblema dell’ambientalismo, una rappresentazione dello spirito cristiano etc.
Probabilmente è anche tutto ciò¹ e molto altro ancora.
I giornali sono o sono stati stracolmi di ipotesi e stiracchiature, per cui ci sentiamo in dovere, in qualità di amanti del genere, di dire qualche parola sull’opera di colui che consideriamo semplicemente un “maestro” e non solo del Fantasy, bensì della “Vita” stessa, con la premessa che prescindiamo subito dall’affrontare il confronto libro-film – che anch’esso meriterebbe molti bei distinguo.
Ora, è indubbio che Tolkien abbia il merito di aver, se non inventato (prima di lui ci sono stati molti altri che si sono cimentati nel genere, primo fra tutti Erik R. Eddison²), almeno dato spessore e dignità a quella letteratura denominata comunemente con il termine di “fantasy” ed è altrettanto indubbio che sorprendentemente si sia sempre ostinato a negare³ fino al 1973 – anno della sua dipartita da questo mondo – che la sua opera fosse in qualche modo allegorica.
Un primo merito della vera letteratura fantasy, prima ancora che del nostro autore e non solo del nostro Tolkien, va ricercato nella sua capacità d’impatto sul lettore e nella sua natura fondamentalmente “provocatoria” rispetto alle linee di tendenza della cultura ufficiale, poiché il fantasy si svolge lungo schemi che apertamente contraddicono i metri di giudizio della realtà tipici della narrativa: infatti, alla concezione empirica, psicologica e sociologica dell’uomo, con le debite eccezioni, viene contrapposta una concezione fondamentalmente eroica e spirituale.
L’opera di Tolkien non si esaurisce ne “Il Signore degli Anelli”, bensì quest’ultima è il sigillo completo di un’opera incompiuta che lo aveva tenuto occupato per decine di anni e che, per sua stessa ammissione, è rimasta incompleta e monca in molte sue parti, un’opera che pretendeva di essere così vasta da annettersi
tre intere ere di migliaia di anni, una Cosmogonia, tre diversi tipi di linguaggio, tre diversi tipi di calendario ed una interminabile cronologia di Re e di Nobili di ogni razza e nazione⁴.
E’ noto che egli sia stato un professore di filologia ed un amante
della storia, soprattutto medievale, ed in quanto tale il suo interesse non esclusivo, ma neppure secondario, era la lingua, fatto sta che non nascose mai a nessuno il fatto che la storia dei suoi personaggi della Terra di Mezzo fosse sempre stata suggerita o determinata dal significato di un nome inventato nel suo “magico” linguaggio⁵.
Ma allora in che cosa consiste la sua fantastica analogia tra la Terra di Mezzo e la realtà che ci circonda? Per capire che cosa ci sia ne “Il Signore degli Anelli” che tanto affascina gente di ogni estrazione, giovani ed anziani, per comprendere perché generazioni di lettori si sono commossi ed esaltati su quelle
epiche pagine che narrano di eroi, di regni perduti, di signori del Male contrapposti ad elfi, nani, cavalieri e piccole creature gentili pronte ad ogni sacrificio per il trionfo del Bene, occorre capire chi sia l’autore: un cattolico in terra protestante.
Entrò nella comunione con Roma all’età di nove anni, quando si convertì la madre, e sempre rimase nella comunità cattolica, povera e composta quasi essenzialmente di immigrati irlandesi con alle spalle secoli di persecuzione religiosa, il che lo rese saldo e depositario di una fede cattolica robusta e senza fronzoli, tant’è che prima di sposare sua moglie attese la di lei conversione al
cattolicesimo, dalla cui unione ne scaturì anche un figlio sacerdote.
Da questo amore per le proprie radici religiose nacque l’interesse per il Medioevo, quando l’Inghilterra era cattolica ed il continente europeo conosceva ancora un’unità culturale e spirituale mai più raggiunta. Ed è proprio dall’amore per il Medioevo che scaturisce impetuosa tutta la passione per le genealogie, per i simboli, per i nomi; tra l’altro non si può tacere che lo stesso “modus legendi” della storia Medievale è ricalcato ne “Il Signore degli Anelli”: infatti, come la storia medievale non può essere letta nella sua
interezza senza percorsi precisi che si intersecano tra loro, così anche l’opera magna di Tolkien; ovvero, nella storia medievale ci sono dei percorsi obbligati che si intrecciano tra loro e per i quali occorre leggerla e rileggerla ogni volta con un occhio di riguardo per un percorso specifico per poterla comprendere⁶, così è anche per il capolavoro Tolkeniano⁷.
Lo stesso autore conferma questo legame tra il Medioevo storico e la sua epica storia:
“Io ho la mentalità dello storico. La Terra- di-Mezzo non è un mondo immaginario⁸(…). Il teatro della mia storia è su questa terra, quella su cui noi viviamo, solo il periodo storico è immaginario. Ci sono tutte le caratteristiche del nostro mondo (almeno per gli abitanti dell’Europa nord – occidentale) così naturalmente sembra familiare, anche se un pochino nobilitato dalla lontananza temporale. (…) Il mio non è un mondo immaginario, ma un momento storico immaginario su una Terra-di-Mezzo che è la terra dove noi viviamo.”⁹
E’ ancora dall’amore per il medioevo che nasce la disapprovazione
dell’autore per il “progresso”, o almeno per quel progresso nel nome del quale, dalla Riforma in poi, tanti mali erano venuti.
Tolkien paventa, di fronte all’avanzata distruttrice della modernità tecnologica ed irreligiosa, la scomparsa della memoria, della tradizione, oltrechè l’avvento di tempi di aridità, di materialismo e di menzogna.
Si potrebbe pensare che esprima una concezione pessimistica o catastrofica, mentre in realtà il suo è semplice realismo, consapevole delle prove che siamo chiamati a sostenere, ma anche certo della vittoria finale.
Forse Gulisano, in uno dei suoi molti saggi su Tolkien, ha colto nel segno dicendo che egli possiede quella che si potrebbe definire una visione teologica della storia, attraverso la quale giudica, con l’autorevolezza di un filosofo o di un profeta, le vicende umane della modernità, anzi, aggiungiamo, le vicende umane di ogni secolo venturo.
Eppure, quella di Tolkien non è mai, poiché egli mai l’ha voluta, una lettura ideologica della storia, che non nasce da un’idea del mondo o da un progetto più o meno utopico su di esso, bensì dalla constatazione di fondo di una Verità ormai dimenticata, quando non osteggiata apertamente da tutta la modernità, dalla realtà di una natura e di una condizione umana sempre sperimentabile davanti ai suoi occhi quotidianamente, anche se ormai dimenticata dai nostri occhi moderni tanto presuntuosamente attenti ad ogni tecnica scientifica sperimentabile, quanto irrimediabilmente ciechi di fronte alla sua evidenza: quella della condizione umana indelebilmente segnata, macchiata dalla Caduta, ovvero dal “Peccato Originale”.
Non a caso ne “Il Signore degli Anelli” il nemico da battere è si anche il malvagio avversario Sauron, quale incarnazione del Maligno per eccellenza, ma soprattutto è il male che alligna, che si annida infido in ciascuno di noi¹⁰, anche negli eroi più impavidi come Frodo, e che va combattuto ogni giorno in modo inesorabile. Anzi, come il finale ci insegna, a volte non basta volere qualcosa per ottenere la vittoria, sempre occorre la mano della provvidenza che guida le azioni degli uomini per poter sconfiggere il male: si veda in proposito il significato enorme dell’azione del semplicione e pavido servo di Frodo per l’esito finale dell’impresa, oltrechè l’azione egoistica del corrotto Gollum che impedisce a Frodo di diventare lui il Signore dell’anello.
In questo contesto vorremmo mettere in risalto anche la figura incomprensibile di Tom Bombadil, personaggio del tutto estraneo alle vicende della terra di mezzo, semplicemente perfetto nella sua natura definibile soprannaturale, che domina ogni cosa con il solo suo canto, del tutto incorruttibile ed immune da qualunque tipo di male o di magia, un personaggio che vince sempre senza danneggiare né pianta, né animale, né spirito e che ha una moglie esattamente dello stesso spessore.
Vogliamo porre questo personaggio nel contesto del male perché, pur non essendo necessaria, questa figura fu molto amata da Tolkien che ne narrò le avventure in un libro a parte tramite 16
poesie.
Ebbene, questo personaggio tra i numerosi commentatori del nostro autore non ha mai trovato una collocazione adeguata, semplicemente perché non c’è, rappresentando semplicemente l’uomo nella sua perfezione naturale e soprannaturale senza la Caduta, tant’è che allorchè a Gandalf viene chiesto perché
non affidare l’anello a Tom, egli rispose che lo avrebbe perso dimenticandolo dopo pochi minuti, poiché per lui senza valore.
Ecco che forse il nostro autore ha molto amato Tom e l’ha sempre voluto nel piano della sua opera perché rappresenta il “cosa sarebbe successo se” il male non fosse entrato in questo mondo.
Per il professore di Oxford, nel nostro Novecento il ritorno al Bello ed al Vero non poteva essere realizzato se non attraverso il ricorso ed il ritorno al Mito ed alla Fiaba – che in certa misura sono identificabili nella loro struttura e significato essenziali – , per cui tramite ombre, immagini e parole Tolkien ha indirizzato la sua vita e la sua opera verso la Verità e la Bellezza, quella “Bellezza” che si identifica nel “Buono”¹¹ e che nella filosofia teologica medievale era considerata un riflesso, una traccia sensibile della Divinità, che ne poteva favorire la percezione.
E’ per questo che dietro le storie degli hobbit, degli elfi, dei nani e degli uomini della Terra di Mezzo traspare la concezione Tolkeniana della bellezza, intesa come luce della forma e splendore della verità, che è segno visibile della Grazia.
La bellezza che il nostro autore ha voluto mostrarci non prescinde dal problema del male ¹², anzi, il male sembra essere in qualche modo il motivo che la fa rivelare, e dunque appare presente nel romanzo come grazia¹³.
Sembra proprio essere la Grazia piena di speranze lo straordinario segreto degli eroi Tolkeniani, i quali hanno in un certo senso un precursore molto antico: il Beowulf, del quale più avanti dovremo, seppur succintamente, parlare.
Ma adesso vorremmo indulgere sulla figura di Boromir, figlio del sovrintendente di Gondor, che sa che non sarà mai Re, considerando anche che il vero Re, Aragorn, è tornato e dovrà combattere per il suo popolo che ama come un semplice soldato e come tale ragiona in se stesso.
Egli appare come il paradigma dell’uomo “cristiano” che non ha il suo destino in questo mondo, ma in cui dovrà combattere in attesa del ritorno del Gran Re; tuttavia non è un cavaliere senza
macchia e senza paura, bensì sperimenta su di se la tentazione del potere sotto apparenza di bene ed in essa cade, esattamente come ciascuno di noi sperimenta nella sua vita.
Eppure, ed è qui la sua grandezza, a differenza di qualunque peccatore ostinato non si abbandona alla disperazione, non persevera nel male e riconosce umiliandosi la sua colpa: “che cosa ho fatto?” si chiede addolorato quando si rende conto, non tanto comprendendo dove era l’errore di giudizio, quanto di aver compiuto un’azione sbagliata e l’umiliazione di fronte agli altri della Compagnia è drammatica.
Eppure la debolezza umana è il trono su cui si siede la Misericordia divina, cosicchè si rialza, resta a combattere, accetta il proprio fallimento e cerca di rimediare riscattandosi con l’estremo sacrificio di se. Nel tradimento Boromir non dimostra
solo di essere un uomo vero mostrando la sua debolezza, ma di essere un vero uomo, un autentico «vir» che dimostra, appunto, virilità.
E poi sono toccanti le sue ultime parole dedicate ad Aragorn: “Io ti avrei seguito Fratello mio, mio Capitano, mio Re.” fino alla morte.
L’opera del nostro professore ci sembra analoga, se non simile nella struttura ideologica, all’opera dell’autore del Beowulf, che Tolkien tanto amava e che ha tradotto dall’anglosassone antico.
L’autore del Beowulf era un Cristiano che ha voluto trattare un poema pagano nordico. L’opera è in versi, tra l’altro molto affascinanti e di traduzione difficoltosa, e tratta di un eroe, il Beowulf appunto, che compie delle imprese apparentemente disperate combattendo dei giganti ed un drago che custodisce immense ricchezze.
Il problema, secondo Tolkien non compreso da tutti i commentatori e critici letterari del Beowulf, consiste nel fatto che la materia trattata non ha pertinenza tanto storica, bensì fantastica e mitologica, ma fondamentalmente esistenziale.
La mitologia nordica scandinava è essenzialmente una mitologia senza speranza, poiché tutti gli Dei, da Odino a Thor fino al resuscitato Balder, hanno un destino ineluttabile: il Ragnarok, ovvero la sconfitta, la distruzione, l’annientamento da parte delle forze malvagie: “Gli dei del Nord hanno un’esultante stravaganza bellica che li rende più simili ai Titani che agli Olimpi; solo, essi stanno dalla parte giusta, sebbene non si tratti della parte che vince.
Il partito vincente è quello del Caos e dell’Irrazionale ma gli dei, che vengono sconfitti, pensano che questa sconfitta non sia una confutazione e nella loro guerra, gli uomini sono per elezione i loro alleati, in grado, quando davvero eroici, di condividere questa assoluta resistenza, perfetta perché senza speranza”¹⁴.
Per cui l’atto eroico dei pagani del nord è un atto senza futuro e senza gioia, resta tale solo per l’atto in se e per i racconti dei posteri ed in quanto tale da stimare e rispettare, lo stesso professore di Oxford diceva in proposito: “Stimiamo in ogni modo gli antichi eroi: uomini prigionieri delle catene di circostanze o della loro propria indole, lacerati dal conflitto di doveri egualmente sacri, che muoiono con le spalle al muro”¹⁵ e ancora: “Nel Beowulf abbiamo dunque un poema storico sul passato
pagano. (…) E’ il poema di un uomo colto che sta scrivendo dei tempi antichi, il quale, volgendosi indietro all’eroismo e alla sua tristezza, trovava in essi qualcosa di permanente e di simbolico”¹⁶.
Orbene, l’autore del Beowulf ha trasmesso allo spirito dell’opera pagana la Speranza cristiana, ha infuso nell’opera, senza mai citarla, una fede che completa e dà speranza allo stoico eroismo pagano, un po’ come è accaduto con lo Snorri per l’Edda.
Così a parer nostro è accaduto anche ne “Il Signore degli Anelli” in cui, come nel Beowulf, mai viene menzionato Dio e tuttavia sembra essere sempre presente, sempre provvidenzialmente operante nell’intera opera, anzi pare essere quel che dà grazia a tutta la narrazione, poiché si respira un desiderio, una speranza mai delusa nei fatti. Il destino non è fato inesorabile, ma disegno di Dio in entrambi i romanzi,
“Un cristiano era ed è come i suoi avi, un mortale rinchiuso in un mondo ostile. I mostri restavano i nemici dell’umanità, la fanteria dell’antica guerra, e divennero inevitabilmente i nemici del solo Dio, l’eterno condottiero della nuova guerra”¹⁷.
Il Beowulf è stata forse l’opera che ha acceso in Tolkien l’idea del suo capolavoro e non solo dal punto di vista dell’argomento epico-
fantastico e dello spirito che la anima, ma anche dal punto di vista linguistico; infatti, il modo linguistico con cui il professore di Oxford ha scritto il suo capolavoro, inventando da brillante filologo le lingue elfiche, si configura con qualcosa di molto simile alla terminologia antico-inglese con cui è composto il Beowulf.
Non a caso anche Tolkien era solito adoperare molte parole composte con il medesimo obiettivo del poeta del Beowulf, ovvero per la concentrazione, per la forza della concisione, per la costruzione del colorito pittorico ed emozionale saldamente situato entro un verso lento e sonoro, fatto di brevi gruppi verbali ben bilanciati: la ragione consisteva nello sviluppo di una lingua familiare nei significati e tuttavia svincolata da associazioni di tipo popolare e piena della memoria del bene e del male¹⁸.
Anche nel modo di inventare i nomi delle persone e dei luoghi Tolkien usa spesso i composti allo scopo di descrivere e di evocare la visione delle cose, quello stesso tipo di composti di cui è pieno il Beowulf e che sfuma nella “classe poetica” per dare colorito agli antichi versi. Si tratta di quel tipo di descrizione definito con il termine islandese Kenning con cui il composto verbale fornisce una descrizione parziale e spesso immaginaria o fantastica della cosa cui si riferisce, poiché la Kenning fa lampeggiare dinanzi ai nostri occhi un’immagine, spesso particolarmente chiara e luminosa in virtù della sua brevità, invece di svolgerla con una similitudine¹⁹.
Si tratta di frasi concise, di tocchi leggeri, di brevi parole che
riescono ad evocare ascosi significati e che risuonano quali corde d’arpa sfiorate all’improvviso e che riempiono tutto il romanzo di Tolkien, rendendolo non solo unico, ma anche magicamente epico e pregno di sostanza significante. D’altronde, opere come il “Beowulf”, come “Galvano ed il cavaliere verde”, come lo stesso “Il Signore degli Anelli”, appartengono a quel tipo di opere letterarie che ha profonde radici nel passato, in cui l’antichità, come uno sfondo pieno di figure, pende sempre dietro la scena principale, cosicchè sembrano udirsi gli antichi echi, i simboli e le
credenze.
La storia in queste opere non verte esclusivamente su queste antiche cose, ma da esse riceve in parte vita, vivacità e tensione; così come accade alle più grandi tra le fiabe e queste opere fanno parte di esse, “invero non esiste un mezzo migliore per comunicare un insegnamento morale di una fiaba ben fatta e intendo con ciò un racconto dalle radici profonde, narrato come un racconto, e non semplicemente travestito da allegoria morale”²⁰.
In queste opere, come ne “Il Signore degli Anelli”, la “perfezione” è presentata come un ideale per cui lottare, ma i personaggi non sono presentati come allegorie astratte, bensì come uomini, come esseri umani specifici, con una loro precisa identità, anche quando la lotta diventa talmente intensa da dubitare della riuscita finale, ma ampliare così la scena e gli attori è una peculiarità delle fiabe, o, piuttosto, è una di quelle peculiarità che viene distillata dall’alchimia letteraria quando storie antiche e dalle profonde radici vengono rielaborate da un vero autore dotato di immaginazione originale.
In definitiva, nessuno può negarlo, nel romanzo epico di Tolkien ci sono forti richiami a certi valori assoluti: il ricordo delle generazioni precedenti, l’ineluttabilità del destino, l’onore, la purezza dei sentimenti, il coraggio, la fedeltà, e soprattutto la
consapevolezza di essere chiamati per una missione disperata, ma senza mai perdere la speranza di portarla a compimento.
Valori che sottendono una sola distinzione: quella tra il Bene ed il Male, “La storia è imperniata su un lato buono ed uno cattivo,
la bellezza contro la bruttezza crudele, la tirannia contro la regalità, la libertà con il consenso contro la costrizione che da tempo ha perso qualunque altro obiettivo che non sia il conseguimento del puro potere”²¹.
Anche i modi e lo spirito per raggiungere il fine, cioè la vittoria su Sauron, devono tener conto di questi principi e valori: “Nella mia storia Sauron raffigura quanto di più vicino esista alla totale
malvagità. Ha percorso la stessa strada di tutti i tiranni: cominciando bene, in quanto pur desiderando un ordine che rispondesse alla sua conoscenza, dapprima considerava anche il benessere (economico) degli altri abitanti della Terra.
Ma andò più lontano dei tiranni umani per quanto riguarda l’orgoglio e la brama di dominio, essendo in origine uno spirito immortale (angelico). (…) Sauron desiderava essere un Dio-Re (…); se avesse vinto avrebbe preteso onori divini da tutte le altre creature razionali e il potere assoluto temporale sul mondo intero”²².
A questo punto non si può prescindere dall’analizzare il significato del male e dell’anello nella saga di Tolkien, e questo significa doverlo confrontare e rapportare con il Silmaril, poiché inscindibili concettualmente. Dovendo sintetizzare, possiamo dire che il Silmaril e l’Anello sono i simboli fiabescamente rappresentativi dell’Oggetto sacro assoluto dell’affettività e delle volontà umane, in cui il Silmaril può diventare l’Anello.
L’Anello è quell’oggetto che – ne “Lo Hobbit” – infilato al dito rende invisibili, per poi scoprire – n e “Il Signore degli Anelli” – che ha la capacità, tra le altre, di rendere immortali, una gloria che Bilbo stesso sente con orrore, pur essendone attratto, e tale sarà anche per Frodo e per la Compagnia dell’Anello.
Quella che promette è, infatti, una immortalità in qualche modo insensata, ovvero intesa come pura durata di esistenza finita, dunque precisamente infernale, un’immortalità che si concepisce possibile in quanto alimentata da energie materiali inesauribili
fiabescamente immaginate come racchiuse nel breve giro di un anello.
Il Silmaril è invece il segno e la fonte di un’energia di immortalità, che non sale da “sotto”, bensì che discende da “sopra”, dall’alto, dall’Altissimo; è un’immortalità essenziale, non come pura durata, bensì come pienezza infinita di vita, essenzialmente solo di Dio,
ma partecipata e partecipabile, ma soprattutto non è una possibilità di questo mondo.
Il male originale e originante ogni altro male è l’adesione-illusione-presunzione a un’immortalità da “sotto”, intesa come furto, conseguita con le nostre sole forze come possedimento a noi congeniale, a noi e a questo mondo: questo è l’Anello e non, come dovrebbe essere, il Silmaril, dono di vita immortale dall’”alto”.
Il dono esisteva e splendeva un giorno anche quaggiù, incapsulato appunto nel Silmaril, che
la fiaba immagina simbolicamente come una sfera di cristallo impregnata di luce
divina immortale ed appesa all’Albero di Valinor, ma è stato perduto e la perdita è meritata, perché abbiamo pervertito colpevolmente il dono in puro autonomo possesso²³.
A questo punto si potrebbe obiettare che chi scrive stia facendo in
definitiva dell’allegoria, quando l’autore stesso l’ha rinnegata sostenendo che “la mia mente non concepisce l’allegoria”²⁴, eppure se si continua a leggere le sue lettere scopriamo che non è indebito un tipo di passaggio come quello descritto sopra con collegamenti alle altre opere dell’autore per spiegare certi passi, infatti nella stessa lettera del 1954 troviamo scritto: “Ma tutta la storia precedente (il passato) che uno può desiderare in realtà esiste nel Silmarillion e nei racconti e nei poemi collegati che formano la Storia degli Eldar (elfi).
Credo che nel caso non molto probabile che abbastanza persone si interessino al Signore degli Anelli tanto da ripagare i costi della pubblicazione, i coraggiosi editori potrebbero prendere in considerazione l’idea di stampare un po’ del materiale sulle vicende precedenti.
In realtà è stato scritto prima, e io desideravo che il materiale uscisse in ordine cronologico, il che mi avrebbe risparmiato un sacco di allusioni e di spiegazioni in questo libro. Ma non hanno accettato”²⁵.
Ancora, il professore di Oxford ha voluto chiarire che il suo capolavoro non avesse nulla a che fare neppure con qualcosa di autobiografico: “La storia non riguarda affatto JRRT, e non è
assolutamente un tentativo di trasformare in allegoria la sua esperienza di vita”²⁶; eppure come non citare alcuni passi di Tolkien stesso che inducono a credere al fatto che anche involontariamente un vero creatore di fiabe fa sempre dell’allegoria, poiché scrive storie vere, compone situazioni e personaggi che rispecchiano la realtà così com’è: “dietro la fantasia, esistono volontà e poteri reali, indipendenti dalla mente e dai propositi degli esseri umani”²⁷; “Naturalmente, allegoria e storia convergono, fondendosi da qualche parte nella Verità.
Cosicché l’unica allegoria perfettamente coerente è la vita reale; e l’unica storia pienamente intelligibile è un’allegoria.
E uno scopre, perfino nell’imperfetta letteratura umana, che l’allegoria migliore e più coerente è quella che più facilmente
di tutte può essere letta proprio come una storia; e quanto è più strettamente intrecciata una storia tanto più facilmente quelli intenzionati a farlo vi troveranno un’allegoria.
Ma le due cose partono da punti opposti. Si può fare dell’Anello
un’allegoria della nostra epoca, volendo: un’allegoria dell’inevitabile fine cui vanno incontro tutti i tentativi di sconfiggere il potere del male con un potere analogo.
Ma questo è solo perché tutti i poteri magici o tecnici lavorano sempre in questa direzione. Non si può scrivere una storia su un anello magico apparentemente semplice senza che la storia si gonfi, se davvero prendi sul serio l’anello, e senza far
accadere cose che accadrebbero, se un anello simile esistesse davvero”²⁸.
Alla fine, l’opera di Tolkien si impone alla nostra attenzione per la sua robusta certezza che il bene ed il male sono tra loro incompatibili, che nella storia umana è in atto un assalto tremendo da parte delle forze della sovversione, che l’esistenza è drammatica e non ci si può cullare in un irenismo zuccheroso.
In una cultura, dove tutto è ambiguo e grigiastro, dove pare che la vita sia un gioco senza scopo e senza regole se non il puro egoistico piacere personale, dove c’è molta “comprensione” per tutto tranne che per le ragioni della verità, l’universo che ci presenta Tolkien ci appare come un forte ed affascinante richiamo all’autenticità degli esseri, dei principi e delle intrinseche finalità,
poiché è la verità delle cose ad essere cantata in queste opere tolkeniane, oltre la veste variopinta della fiaba ed oltre il linguaggio epico.
Uno dei punti fondamentali per illuminare il mistero genetico de “Il Signore degli Anelli” è proprio questo, ovvero l’insistenza con cui lo stesso autore si è sforzato di farci sapere che la “mitologia”, il fantasy di cui si tratta, non era tanto sua e di sua invenzione, ma in un suo senso profondo vera in sé; non mito, ma in fondo
verità, per cui non tanto da inventare da parte sua, quanto da scoprire; Carpenter dice in proposito che Tolkien “sperava che la sua storia e l’intero corpo (la sua mitologia) potessero risultare veri”²⁹, “voglio semplicemente che la gente si immerga nella storia e la consideri come storia vera”³⁰ diceva Tolkien negli ultimi
giorni della sua vita.
Quantomeno il professore di Oxford ci ha voluto trasmettere quella che un suo biografo definiva la sua “visione morale dell’universo”³¹, e solo in questa accezione si può accettare per Tolkien la definizione di “mitopoeta cristiano”.
D’altronde, la parola con cui i greci definivano la verità era αλεθεια, che indica propriamente un discoprimento e letteralmente significa togliere il velo che occulta, che copre qualcosa.
Ma che cosa occulta la verità? Sono “i fatti che coprono la realtà, e mentre siamo nel mezzo della loro pullulazione, siamo nel caos e nella confusione. Per scoprire la verità ci è necessario ritrarci, per un momento, dai fatti e restare soli con la nostra mente.”³².
Gehlen ci fornisce un importante indicazione per la comprensione della fantasia, notando come essa si collega al passato, alla memoria, in modo direi strumentale, ovvero che il ricordo ha
la funzione “di rendere disponibile il passato per dominare favorevolmente una situazione che ora emerge e si protende in avanti”, in tal modo la fantasia diventa la facoltà grazie alla quale si rende possibile il confronto tra l’uomo e la realtà e ciò significa anche che essa svolge un ruolo tutt’altro che secondario nel processo della conoscenza.
L’immaginazione sembra essere così la facoltà di guardare il mondo come se ne stessimo fuori, di osservarlo oltre i limiti della prospettiva storica attuale, l’immaginazione è “la capacità vitale grazie alla quale il vivente si disloca rispetto al punto dello spazio e del tempo in cui si trova, uscendo da se stesso ed allontanandosene, senza di fatto muoversi da dove si trova”³³.
La fantasia³⁴ opera una vera deformazione della realtà, ma a ben vedere non è affatto l’oggetto reale che viene deformato, bensì la nostra abituale prospettiva, il nostro abitudinario modo di guardarlo³⁵.
Con la fantasia, il reale non è più osservato da un punto di vista interno al reale stesso, ma da un punto di vista esterno, ovvero non condizionato dai limiti della razionalità e comunicabile solo attraverso la deformazione metaforica, simbolica e mitica, per cui la metafora, il simbolo, la drammatizzazione mitica non deformano il reale, bensì lo ri-creano. Lo stesso professore di Oxford ebbe a scrivere in proposito: “La Fantasia è una naturale attività umana, la quale certamente non distrugge e neppure reca offesa alla Ragione; né smussa l’appetito per la verità scientifica, di cui non ottunde la percezione. Al contrario: più acuta e chiara è la ragione, e migliori fantasie produrrà.
Se mai gli uomini si trovassero in condizioni tali da non voler conoscere o da non poter percepire la verità, allora la Fantasia
languirebbe finchè essi non guarissero. E se mai arrivassero a quello stato (e non sembra del tutto impossibile), la Fantasia perirebbe e diverrebbe Morbosa Illusione.
La Fantasia creativa si fonda infatti sull’ardua ammissione che le cose del mondo esistono quali appaiono sotto il sole; su un riconoscimento dei fatti, non sulla schiavitù ad essi. (…) La Fantasia rimane un diritto umano: creiamo alla nostra misura e nel nostro modo derivativo perché siamo stati creati; e non soltanto creati, ma fatti a immagine e somiglianza di un Creatore”³⁶.
La fantasia intesa come capacità, ovvero l’inventiva linguistica ed ambientale fine a se stessa, è cosa del tutto diversa dalla Fantasia, quella con la F maiuscola, intesa come narrativa simbolica e che non significa mai travestimento del reale, ma
che è sempre matrice di un “Reale Parallelo”; in sostanza, l’oggetto della fantasia non è mai il mondo, ma il Secondary World di Tolkien, un universo a se stante, regolato da proprie leggi e proposto in alternativa ed in antitesi a quello di tutti i
giorni. Sembra quasi che, all’atto di creare con la fantasia quella che autenticamente merita il nome di “una civiltà”, Tolkien riscopra, consciamente o meno, alcune verità perenni, alcune evidenze metafisiche che nella nostra cultura dominante possono essere considerate pure follie.
Infatti, il nostro professore finisce con l’introdurre nell’ambito della narrativa un’interrogazione sull’uomo, un’interrogazione di carattere metafisico, in cui primeggia non tanto la problematica sul ruolo del singolo nella società, bensì sul ruolo universale, sulla
dimensione cosmica dell’uomo stesso, ovvero sulla percezione del suo “essere nell’infinito”, in definitiva un’interrogazione sull’escatologia umana.
Ci sembra adeguato concludere queste pagine con dei versi stupendi del nostro Tolkien, versi che scrisse in risposta ad un tale che aveva definito “menzogne”, seppure “respirate attraverso argento”, sia il mito che la fiaba:
Caro signore, benché a lungo alienato,
l’Uomo non è perduto né del tutto
cambiato. Forse è in disgrazia, non
detronizzato,
e della sua signoria i cenci ha conservato:
l’Uomo, il Subcreatore, questa riflessa
Luce, passando per il quale dal Bianco si
produce di colori una gamma, senza fine in
viventi forme commisti e scambiati tra le
menti.
Le fessure del mondo noi abbiamo riempito
di Elfi e di Folletti, ma pure costruito
Dèi e templi a partire dall’ombra e dalla luce,
sparso dei draghi il seme: fu un’insolenza
truce? Era il nostro diritto, che non è
decaduto: creiamo nella legge che tali ci ha
voluto.
1 Dipende da che cosa si intende per fiaba, per letteratura di evasione e così via.
2 Di Eddison e del suo capolavoro “Il Serpente Ouroboros”, che io considero di stile tipicamente elisabettiano, nonché barocco nel dispiegarsi della narrazione, lo stesso Tolkien ebbe a dire: “Il più
grande e il più convincente scrittore di mondi inventati che io abbia mai letto”. Anche se convenzionalmente si è ormai stabilita una data ed un nome per la nascita del genere fantasy: la data è quella del 1895 ed il nome è quello del pittore e narratore inglese William Morris con il suo “Il bosco oltre il mondo”, un romanzo appesantito dalla narrazione colma di simbolismi iniziatici
di un viaggio interiore.
3 Vedasi le sue numerose lettere in merito, edite nel volume “La realtà in trasparenza”, Ediz. Rusconi, Milano 1990.
4 Ci pare evidente che non è possibile capire il capolavoro Tolkeniano senza aver letto almeno il Silmarillion, meglio se si leggono anche tutte le altre opere, seppure incompiute.
5 Egli non distingueva la letteratura dalla lingua, apparendogli come semplici parti di un unico argomento: “Il senso giusto e naturale del termine lingua include la letteratura, proprio come la
letteratura include lo studio della lingua dei testi letterari” (JRR Tolkien “Discorso di commiato all’Università di Oxford”, in “Il medioevo e il fantastico” Ediz. Luni, Milano 2000, pag. 330).
Come non credeva possibile una lingua senza una storia mitica o religiosa alle spalle: “mi permetterei di azzardare l’idea che per la costruzione di una lingua artistica veramente perfetta sia
necessario elaborare, quantomeno a grandi linee, una mitologia ad essa concomitante (…) perché creazione della lingua e creazione della mitologia sono funzioni correlate; per conferire un
determinato gusto estetico alla lingua creata dall’individuo è necessario che in quella lingua siano presenti le tracce di una mitologia individuale. (…) Addirittura, è vera la proposizione inversa: la costruzione di un linguaggio genererà di per sé una mitologia.” (JRR Tolkien “Un vizio segreto” in “Il medioevo e il fantastico”, op. cit., pag. 300-301).
6 Per esempio, potremmo badare alla lotta per le investiture tra il papato e l’impero, oppure alla vicenda dei Normanni che tanta parte ha avuto in ogni capitolo della storia medievale, od ancora
alla storia delle crociate, e tuttavia questi percorsi si intrecciano tra loro in modo quasi inestricabile nella loro vicenda storica.
7 Anche di esso potremmo voler seguire il cammino di Frodo, quello di Gandalf o quello di Aragorn eppure anch’essi contemporaneamente inestricabili nella loro narrazione. L’autore non ha difficoltà ad interrompere una narrazione anche sul più bello per raccontarci che cosa accade ad altri protagonisti in quel momento.
8 Infatti, il nome Terra-di-Mezzo non è che la forma moderna, apparsa nel XIII secolo ed ancora in uso, del termine Midden-erd o Middel-erd, ovvero l’antico nome di οιχυμενη, ovvero “il posto
degli uomini”, “il mondo reale”, usato allora proprio in contrapposizione con il mondo immaginario (come il paese delle fate) e con i cosiddetti mondi invisibili (come il paradiso e
l’inferno).
9 JRR Tolkien “La realtà in trasparenza”, Ediz. Rusconi, Milano 1990, pag. 270 e 276
10 Tragicamente reale e vero ci appare l’episodio del tradimento di Boromir e del riscatto di sangue
pagato da quest’uomo.
11 Ben consapevole che tanto in sanscrito, quanto nel più recente greco il termine καλος significa tanto “bello” quanto “buono” e dunque, per estensione, anche “vero”.
12 Lo dimostrano le numerose sofferenze che i vari protagonisti devono affrontare: la fatica del cammino di rinuncia di Frodo, la dura condizione di esiliato di Aragorn, la lotta per la giustizia ed il
diritto, il sacrificio della propria vita per salvarne altre, le battaglie senza speranza che vengono combattute anche solo come diversivi etc.
13 Questa grazia si rivela soprattutto nella leggiadria degli Elfi, in particolare in quella della regina Galadriel, figura che, come Tolkien stesso aveva confessato all’amico Padre Murray, fu ispirata
dalla Vergine Maria, che per definizione nella teologia cattolica è la “piena di Grazia”.
14 JRR Tolkien “Il Medioevo e il Fantastico”, Ediz. Luni, Milano 2000, pag. 49
15 Ibidem
16 Ibidem pag. 58
17 JRR Tolkien “Il Medioevo e il Fantastico”, Ediz. Luni, Milano 2000, pag. 52
18 Per i particolari vedi “Tradurre Beowulf”, in “Il Medioevo ed il fantastico”, Ediz. Luni, Milano 2000, pag. 89-118.
19 Per definire il “corpo” viene usato il termine Lichama, che letteralmente significa “vestito di carne”; per indicare il “sole” viene usato woruld-candel, ovvero “candela del mondo”; per indicare il “Re” il termine goldwine, che significa “amico d’oro” etc. Per esempi più illuminanti e particolareggiati cfr. pag. 103 di “Tradurre Beowulf”, op. cit.
20 Ibidem, op. cit., pag. 120
21 JRR Tolkien “La realtà in trasparenza” Ediz. Rusconi, Milano 1990, lettera dell’autore dell’aprile 1954, pag. 203
22 Ibidem, op. cit., lettera del febbraio 1956, pag. 275-276.
23 Una misericordiosa disposizione divina ha fatto si che qualcuno, Earendil il marinaio elfico, figlio del figlio di Beren e Luthien, l’uomo di sventura amato dalla fanciulla elfica, salvasse il
Silmaril dall’abisso e lo appendesse come stella, mattino e sera, al ciglio del cielo, affinché vi brillasse come invito e come ricordo di immortalità oltre la terra. E’ questo l’espediente finale delle saghe de “Il Silmarillion”.
24 JRR Tolkien “La realtà in trasparenza”, op. cit., lettera del 25 aprile 1954, pag. 198
25 Ibidem, pag. 198.
26 Ibidem, op. cit., pag. 270
27 JRR Tolkien “Sulle Fiabe” in “Albero e Foglia”, Ediz. Rusconi, Milano 1976, pag. 20
28 JRR Tolkien “La realtà in trasparenza”, op. cit., lettera del 31 luglio 1947, pag. 139-140.
29 Carpenter “La vita di JRR Tolkien”, Ediz. Ares, pag.275.
30 Ibidem, pag. 280.
31 Ibidem, pag. 152.
32 J.Ortega Y Gasset “En torno a Galileo. Obras Completas”, Madrid 1957, vol. 5, pag. 16.
33 Arnold Gehken “L’Uomo”, Milano 1984 pag. 358 e ss.
34 la quale si esprime prendendo parole abitualmente legate ad un contesto o ad un oggetto e rapportandole ad un contesto diverso
35 Quando, per esempio, ci si addentra nel regno di Tolkien, si vivono alcuni giorni di sano estraniamento, in cui si fa fatica a vedere il mondo in maniera abituale. Le persone e le situazioni
che s’incontrano vengono connotate con i personaggi della saga: sembra quasi di vedere ovunque orchi od elfi e siamo quasi disposti a giurare che il bosco appena fuori della città è saggiamente governato da Barbalbero o che risuona delle canzoni di Tom Bombadil. La realtà consiste nel fatto che il bosco di Tolkien non è un preciso luogo geografico, ma una sorta di archetipo simil platonico, così come lo sono, seppure in negativo, gli orchi, quali simboli del male senza ambiguità di sorta.
L’autore pare quasi ritrarsi in un ruolo di “latore”, tipico degli antichi cantori di leggende, e trasformarsi in un aedo la cui anonimità è il primo motivo di grandezza.
36 JRR Tolkien “Sulle fiabe”, in “Albero e Foglia”, Ediz. Rusconi, Milano 1986, pag. 69-70.