Pubblichiamo un lungo articolo di Filippo Deidda (che ringraziamo per la consueta collaborazione) sulle possibilità di cooperazione europea in tema di riarmo e sui problemi di gestione del coordinamento da parte dell’UE.

Per agevolare la lettura abbiamo diviso l’intero articolo in 3 aree tematiche:

    • ReArm Europe: un impasse (I)
    • L’Unione Europea come alterità esistenziale dell’Europa (II)
    • Difesa, alleanza e cooperazione come approcci alternativi ai problemi europei (III)

Dopo le prime grancasse sugli “800 miliardi” per nuove spese per la difesa, annunciati in marzo 2025 dalla Commissione UE a targa Von der Leyen, gli entusiasmi hanno incominciato a dileguarsi, con il tempo, forse, la realtà, lentamente, torna a farsi sentire.

Al di là dei titoli di giornale e delle roboanti conferenze stampa dei burocrati di Bruxelles, bisogna infatti chiarie: non ci sono sul tavolo 800 miliardi per la difesa europea.

Il pacchetto ReArm Europe, poi ribrendizzato in un più ipocrita “Readiness 2030”, si compone di due componenti: la prima, da 650 miliardi, spalmati su 4 anni, che non sono altro che una concessione agli Stati Membri per l’attivazione, su richiesta, delle clausole di salvaguardia del Patto di Stabilità (nel limite del 1.5% del PIL per anno) per aumentare la spesa militare, la seconda, la componente “SAFE” che prevede, sul modello del NextGenerationEU, l’emissione di debito comune, per un ammontare di 150 miliardi di euro, da ripartire agli Stati Membri, sempre su richiesta, salvo presentazione e valutazione di un piano di spesa (cioè l’Unione Europea si indebiterebbe in proprio presso i mercati, gli Stati poi presentando il compitino di un piano di spesa a Bruxelles, acquisirebbero il “privilegio” di indebitarsi a loro volta presso l’Unione Europea).

Restano, per altro, delle incertezze di fondo circa il fatto se i fondi spesi per la difesa nel periodo di 4 anni dovranno successivamente essere riassorbiti dagli Stati Membri, con ulteriori riaggiustamenti correttivi di bilancio.

Ovviamente, anche solo pensare di poter chiamare una simile accozzaglia ragioneristica un “piano di difesa comune”, è qualcosa che sfida il ridicolo.

Sarà da ricordare, per mera menzione, che il budget per la difesa degli USA si aggira attorno ai 900 miliardi di dollari annui, ovvero una spesa ricorrente, non vincolata a parametri, vincoli e calcoli fatti col bilancino.

La Russia, che in termini di PIL ha un’economia nominale comparabile, se non inferiore, a quella italiana, destina ormai alla difesa circa 200 miliardi di dollari, che in termini di potere d’acquisto reale, dato dal cambio dollaro/rublo e dalla capacità di spesa interna dello Stato russo, diventa qualcosa di comparabile ai 400-450 miliardi annui, ben più di quanto teoricamente derivabile dallo spazio di bilancio messo a disposizione dalla UE.

Oltre all’insufficienza quantitativa, c’è però anche un grave deficit qualitativo nell’impianto stesso e nelle logiche che muovono le azioni della Commissione in ambito difesa e ciò su entrambe le “gambe” su cui muove il ReArm Europe: sia ciò sul rilassamento del Patto di Stabilità che sul piano SAFE di emissioni comuni.

Per quanto riguarda la maggior spesa concessa dal rilassamento (temporaneo) del Patto di Stabilità, questa risulta viziata da tutti i problemi di fondo che riguardano il Patto di Stabilità stesso: non è possibile normare in maniera aprioristica ed ex ante l’azione degli Stati che sono corpi politici, vivi, con mutevoli esigenze di flessibilità e d’azione.

Tale modello, concepito essenzialmente per svuotare l’azione politica dei governi nazionali e trasferirne il contenuto agli organismi di Bruxelles, in modo da fare della Commissione Europea, una sorta di “supergoverno europeo”, senza tuttavia oltrepassare il passo dell’unione politica formale (chiaramente inviso ai popoli europei, come si manifestò nel referendum francese e olandese del 2005 e in altre occasioni), si è già rivelato ampiamente fallimentare anche nel solo scopo di garantire una stabile crescita economica dell’Unione (che doveva essere la raison d’être primaria e apparente del progetto comunitario).

Basti pensare che, qualsiasi cosa dica (per il suo elettorato interno) Trump circa l’Unione Europea “costruita per frodarci”, dal 1992, anno della firma degli accordi di Maastricht, il PIL combinato dei paesi membri UE era comparabile al PIL degli Stati Uniti, mentre oggi l’economia americana è di oltre il 60% più grande di quella europea, con un divario che, paradossalmente, ha cominciato e ha continuato ad ampliarsi soprattutto a seguito della crisi finanziaria del 2008.

Una crisi finanziaria generata dagli Stati Uniti in casa propria ma che gli Stati Uniti sono riusciti poi a superare, mentre la UE, con le sue regole e vincoli, ha di fatto reso permanente. Stendiamo poi un velo pietoso sull’Euro, talvolta ancora fantasticato, dopo ben un quarto di secolo di fallimentare adozione, come “potenziale alternativa al dollaro come valuta di riserva globale”.

Il peso dell’Euro come valuta di riserva è praticamente comparabile a quella che avevano negli anni ’90 la sola coppia franco francese-marco tedesco, mentre le principali minacce al ruolo del dollaro come valuta di riserva internazionale per il momento sono state le sanzioni di Biden alla Russia (e l’efficace reazione russa) e i dazi dello stesso Trump.

In ogni caso, sperare di poter trasferire lo stesso modello regolamentare ad un ambito essenziale come la difesa, credendo di poter avere risultati soddisfacenti, appare quantomai futile se non velleitario.

L’Unione Europea, replica anche qui, ovvero dove sarebbe meno consigliabile, la propria logica invertita secondo la quale, partendo dai regolamenti e dalle pianificazioni aprioristiche, si dovrebbe essere in grado di avere realmente un’efficace azione politica (in questo caso una reale prontezza operativa di tipo militare).

Purtroppo, in particolare in ambito militare, è la realtà del terreno che dovrebbe informare l’azione normativa di un’entità politica e non viceversa.

E per stare sul terreno, ovviamente, servirebbe una chiara visione strategica dei propri interessi: saper rispondere alla domanda “che ci faccio sul terreno?” è un prerequisito indispensabile e irrinunciabile.

In sintesi: una politica di difesa efficace dovrebbe in primo luogo delineare una chiara visione strategica degli interessi che si intendono difendere, fissata la visione strategica si dovrebbero enumerare i requisiti necessari per difendere gli interessi strategici individuati, solo in ultimo, dai requisiti, si dovrebbe passare (con la massima flessibilità possibile) ad individuare i fondi, gli stanziamenti etc…

Ad esempio: una nazione con una forte proiezione marittima (tipo, diciamo, l’Italia nel Mediterraneo) potrebbe identificare le proprie necessità strategiche in un mare sicuro, libero alla navigazione e allo sviluppo delle infrastrutture energetiche, con coste pacificate etc…

Con tale visione strategica, sarebbero da definire i requisiti per avere uno strumento militare capace di difendere tale visione, i requisiti potrebbero essere avere un’arma di punta nella Marina Militare, dotarla di una forza di proiezione di forze oltremare autonoma etc.

Solo per ultimo, fatta la conta delle risorse necessarie, si dovrebbe passare logicamente agli stanziamenti, alle discussioni bilancistiche, da adattare il più possibile alle reali esigenze del teatro operativo, attuale o potenziale, in cui si agisce o in cui si ritiene di dover agire.

Bruxelles, col suo fare tipicamente invertito, fa l’opposto.

Si parte da una regola rigida di bilancio, da lì si cercherebbero, si suppone, dei requisiti, passando così per ultimo ad impostare (forse) una linea strategica.

Al momento l’unica visione strategica comune, sembra quella definita nell’ultimo summit europeo tenutosi sotto la regia Starmer a Londra – cioè incidentalmente nel cuore del Regno Unito, che come intuibile sarà sempre legato al raggio globale dell’anglosfera più che agli interessi dell’Europa continentale – di ostilità verso un’altra e fondamentale nazione europea come la Russia, identificata come “nemico comune”, con il chiaro intento ideologico di replicare una dinamica da metus hostilis ovvero nella speranza, suscitata soprattutto dagli europeisti più esagitati alla Emmanuel Macron, che la sussistenza di un grande avversario comune (soprassedendo agli interessi che le nazioni europee potrebbero trarre da una coesistenza e da una cooperazione pacifica con la Russia), possa ravvivare gli slanci federalisti in Europa.

Rispetto a tali provvedimenti orchestrati a Bruxelles, risulterebbero molto più pratici e fattivi, degli approcci puramente nazionali per affrontare le proprie esigenze specifiche.

La Germania del neocancellerie Merz (che si sa, è un primus inter pares in seno alla UE), che provvede autonomamente a stralciare i propri vincoli di bilancio interno, non curandosi delle successive implicazioni date dal Patto di Stabilità (che d’altra parte, essendo concepito in funzione delle esigenze tedesche, non causerà problemi), mette in cantiere un proprio programma di riarmo e di aumento di spesa, più significativo e più serio del piano quadriennale sbandierato dalla Commissione, offre già un modello d’azione perseguibile.

Il punto è: perché le nazioni per difendere sé stesse e i propri interessi dovrebbero renderne conto a Bruxelles e farsi normare da essa la propria spesa interna?

Non va meglio, per altro, sulla componente SAFE ovvero sul progetto d’indebitamento comune, che, come detto, ricalca le logiche fallimentari del NextGenerationEU.

L’indebitamento comune della UE di per sé non rappresenta altro che un embrione di bilancio realmente comune ovvero di spossessamento definitivo della sovranità nazionale degli Stati in capo alla UE.

Delegare anche solo parte del finanziamento della spesa per la difesa direttamente a Bruxelles significa, di fatto, per gli Stati rinunciare ad essere delle entità sovrane accentuando la vocazione dell’UE a porsi e ad atteggiarsi, non solo a regolatore delle politiche nazionali degli Stati, ma direttamente ad essere una sorta di “Superstato europeo”, come vorrebbero i vari federalisti del continente, nell’immancabile “spirito del Manifesto di Ventotene” (trascendendo l’obliato pattume marxiano del Manifesto).

Tale prospettiva, ovviamente, apre numerosi interrogativi sull’opportunità politica e ideologica del sostenere un tale progetto e non può prescindere dall’interrogarsi su cosa significhi veramente avere un progetto di difesa comune europeo e sul senso stesso della cooperazione europea nel suo insieme.

L’Unione Europea come alterità esistenziale dell’Europa (II)

Il problema di conferire all’Europa una capacità di difesa credibile e autonoma dagli Stati Uniti, non è solo una necessità che ci si impone visti gli ultimi orientamenti dall’amministrazione Trump, chiaramente volta a non prioritizzare lo scacchiere europeo e a volersi disingaggiare da esso, ma è anche (e soprattutto) un’esigenza per noi europei ineludibile, se vogliamo veramente contare e pesare sullo scenario mondiale e non essere più solo una sorta di protettorato a stelle e strisce.

Qui si apre tuttavia subito l’equivoco, da chiarire quanto prima.

Per “difesa europea”, anche nella declinazione di “difesa comune”, cosa si intende?

Si intende una rafforzata capacità di difesa europea delle nazioni europee nella loro pluralità oppure si intende una capacità di difesa unica, acquisita per il tramite dell’Unione Europea?

L’equivoco va sicuramente risolto nel primo senso, considerando che, nell’attuale fase storica, le nazioni europee, nonostante tutto, non debbano ancora essere chiamate alla fine della propria storia mentre l’Unione Europea non può e non deve essere incaricata di tale ruolo.

L’Unione Europea, come visto in precedenza con la goffaggine e l’inefficacia prospettica dei suoi programmi quale il ReArm Europe, non può avere una funzione preminente nell’organizzare una politica di difesa comune, in quanto istituzione essenzialmente tecnocratica e apolitica, incapace di coordinare lo sviluppo e l’impiego coerente di uno strumento, strettamente connesso ai tratti di sovranità di un’entità politica, quale quello militare.

L’Unione Europea non deve disporre di competenze in ambito militare poiché per farlo, quindi, dovrebbe necessariamente evolvere, rispetto a quanto è oggi, in un’organizzazione schiettamente politica, ovvero dovrebbe prevedere concretamente e schiettamente un progetto di unificazione politica in senso federalista del continente europeo.

Tale prospettiva, più volte evocata dalle forze federaliste europee, che hanno nel francese Emmanuel Macron la loro massima espressione e in Italia, vista anche l’incapacità della classe dirigente italiana dal 1945 in poi a ragionare in termini di sovranità e di interesse nazionale, vasta e predominante influenza nelle nostre élite socio-culturali (oltre che politiche ed economiche), trova talvolta consensi anche negli ambienti della destra radicale e di altri ambienti di contestazione critica del sistema.

Si vagheggia – spesso in perfetta buonafede e magari rifacendosi alle visioni d’antan di un Jean Thiriart e di slogan come il mitico (detto senza ironia) “Europa Nazione, Rivoluzione!” – di una “Europa Potenza” o di una “Fortezza Europa” oppure, fuori tempo massimo rispetto alla fine della Guerra Fredda e dimentichi del trascurabile dettaglio del tramonto globale del comunismo sovietico, si approfitta della polarizzazione data dalla guerra in Ucraina, per ipotizzare una “Europa Terza Potenza”, antitetica ovviamente agli USA tanto quanto alla Russia (in realtà supposta eterna URSS).

In questo schema, si immagina la possibilità di un processo di autoriforma della UE, affinché gli organismi fino ad oggi squallidamente tecnocratici di Bruxelles, nel salto verso lo stato federale, vivano un momento di rifondazione ispirato ad una comune “volontà di potenza europea”, con annesso e conseguente miglioramento delle prospettive dei popoli europei.

In tale processo, magari, si suppone di superare anche le deficienze di uno strumento come il ReArm Europe, puntando direttamente verso la costituzione di un Esercito Comune Europeo, che necessariamente implicherebbe una guida politica unificata dello stesso.

Il finanziamento dell’Esercito Comune, oltre che una nuova politica economica dell’Unione, volta a superare gli squilibri e i ritardi che l’applicazione del Patto di Stabilità e dei vari vincoli fino ad oggi imposti da Bruxelles in coesistenza con una moneta unica, servirebbe da rilancio dell’economia europea da intendersi in competizione diretta con quelle americana, cinese e degli altri grandi attori globali.

Si insiste, inoltre, nel presentare tali progetti, sulle potenzialità che si potrebbero cogliere sviluppando un superstato europeo, come il far leva sulla massa e sulle dimensioni che esso acquisirebbe.

Si fa leva, cioè sul fatto che “saremmo uno stato e un mercato di quasi 600 milioni di persone”, “con un PIL superiore a quello cinese e secondo solo a quello americano”, “sommando le spese dei budget della difesa di tutte le nazioni europee avremmo un budget per la difesa superiore a quello russo e a quello cinese”, “separati siamo più deboli nel confronto con Washington, Mosca, Pechino”, “l’euro potrebbe rivaleggiare col dollaro come moneta di riserva internazionale” e via discorrendo.

Purtroppo, tali argomenti o si riducono, quasi costantemente, in dei meri paralogismi, in affabulazioni che della verità hanno solo una parvenza ingenua, nella confusione del significato dell’aggettivo “grande” con quello dell’aggettivo “grosso” (avere un’Europa “grossa” equivarrebbe ad avere una Europa “grande”) oppure, peggio ancora, sembrano essere argomenti affetti da un malsano idealismo di fondo, ovvero dalla sostituzione mentale di una prospettiva meramente ideale, teorizzata e sospirata, con la realtà effettiva e concreta.

I paralogismi veri e propri tendenzialmente sono quelli della massa ovvero quelli che ipotizzano che sommando aritmicamente le popolazioni europee, i bilanci dei vari stati europei, le spese militari, le spese per investimenti, etc… si possa ottenere un tutto effettivamente coerente come lo sono, a modo loro, le altre grandi entità statuali che agiscono sulla scena globale.

Tale vizio mentale, sembra determinato dal sostrato poveramente materialistico e neopositivistico del riduzionismo parascientifico che costituisce quasi uno sfondo del comune sentire di gran parte del mondo occidentale.

Così come nel vecchio riduzionismo scientifico (ormai superato) si ritiene che la somma delle parti possa fare un tutto e che un tutto complesso possa essere riscomposto in una somma di parti materialmente più semplici.

Le cose però non stanno così.

Un tutto ha bisogna di una forma, di un principio di unificazione (si direbbe: di un’anima) per esistere in quanto tale.

La possibilità di unificazione politica tra entità nazionali differenti è sì, astrattamente,  auspicabile e certamente non bisogna affezionarsi eccessivamente ad nazionalismo sciovinista di stampo otto-novecentesco che storicamente ha fatto il suo tempo (e che ha seminato anche innumerevoli danni per l’Europa). Non si faccia dello Stato Nazione, consci anche della sua origine parzialmente giacobina, un feticcio da difendere senza se e senza ma.

La grande tradizione imperiale di Roma è, soprattutto per degli italiani, un faro a cui ritornare costantemente.

L’opera civilizzatrice della Chiesa di Roma, impegnata a conservare quanto di positivo contenuto nella romanità, fino al tentativo papale di restaurazione dell’Impero in Occidente, con la posa in San Pietro, sulla testa di Carlo Magno, di nuovo, della corona imperiale, ci ricorda che, idealmente, all’universalità della Chiesa dovrebbe far da richiamo temporale l’universalità dell’Impero.

L’epopea dei “molti nemici molto onore” di Carlo V impegnato nuovamente in un grande progetto di dominio imperiale dell’Europa in epoca barocca, impegnato contro i suoi nemici interni ed esterni (i turchi musulmani, i luterani tedeschi, i francesi con le loro gelosie nazionali), per quanto in ultimo fallimentare, non può che suscitarci ammirazione, fino a quell’ultimo retaggio di quell’esperienza asburgica, ovvero il modello di monarchia danubiana degli Asburgo, tramontato definitivamente nel 1918, capace tuttavia di offrire un esempio di convivenza sovranazionale tra più popoli europei sotto uno stesso Re-Imperatore.

Quello che avevano però in comune tali grandi strutture della Tradizione Europea e che l’Unione Europea (fa quasi specie nominarla accanto ad esse) non può avere, era appunto un’anima, un principio di unificazione, un punto di riferimento superiore e anagogico, capace di trascendere le differenze contingenti esistenti tra le nazioni.

L’Unione Europea, le differenze contingenti tra le nazioni, non mira a trascenderle in un punto di unità superiore.

Mira a cancellarle.

Mira a sopprimerle per poi nutrirsi dei loro cadaveri, da riassemblare in un grande Leviatano, quello che sarebbe un grosso Frankestein geopolitico composto dalle membra morte delle nazioni e se il mostro di Frankestein nel romanzo di Mary Shelley è vivificato non da un’anima ma dall’impulso materiale della corrente elettrica, il Frankestein del superstato europeo sarà verosimilmente vivificato non da una qualche idea tradizionale consustanziale alla storia europea (sicuramente non il cristianismo, rigettato ed espunto dalle radici comune dell’Europa e comunque in stato oggettivamente languente nelle coscienze dei popoli europei) ma magari dall’elettricità (a pannelli solari e tinteggiature green?) del mercato algoritmizzato dai sistemi di AI.

In assenza di un principio trascendente di unità formale, solo le nazioni, nella loro pura naturalità, restano come soggetti politici concreti e legittimi.

I paralogismi della pura massa senz’anima, d’altra parte, sminuiscono e inibiscono anche la possibilità d’azione concreta che potrebbero tuttavia avere sulla scena del contesto internazionale le nazioni europee, prese anche singolarmente – come già visto anche in ambito economico, dove, sommando i mercati di economie diverse, unificandoli forzosamente con l’Euro, si è creato un mercato unico più inefficiente di quello americano che, da quando esiste l’Unione Europea, cresce di più di quanto non facesse in comparazione con i mercati delle singole nazioni europee presi come realtà a se stanti.

Giustamente si sostiene che l’Europa non possa ridursi ad essere una grande “Svizzera del mondo”, eppure veramente si pensa che per giocare un ruolo, le nazioni debbano avere realmente bisogno del Levitano di Bruxelles per agire in modo efficace?

La Turchia di Erdogan, che per stazza è comparabile ad un grande paese europeo come Francia, Germania e Italia (e con un’economia più povera, più ristretta, con inflazione costantemente in doppia cifra), non gioca per se stessa un grande ruolo nel proprio teatro di riferimento?

La Turchia non occupa da decenni Cipro Nord? Non impiega efficace il proprio strumento militare contro i curdi? Non ha ottenuto grazie al proprio fido alleato dell’Azerbaijan importanti (e tragiche) vittorie contro gli Armeni? Non è riuscita nel suo progetto decennale di abbattere Assad estendendo anche sulla Siria la propria sinistra influenza? Non è riuscita a proiettarsi anche in Libia (più esattamente in Tripolitania), occupando il vuoto da noi lasciato?

Veramente pensiamo che nazioni come l’Italia o la Francia, non avrebbero potuto fare altrettanto se volenterose e rese capaci di agire in assenza di vincoli?

L’Italia non ha un PIL nominale comparabile a quello di grandi nazioni dei BRICS come Russia o Brasile?

La Francia non ha un PIL nominale prossimo a quello di una nazione come l’India che ha superato in termini di popolazione la Cina?

La Germania, dopo la Cina, non è la più grande economia esportatrice e la più grande economia industriale del mondo?

Per quanto coperto dal fondamentale appoggio americano, una piccola nazione come Israele, con una popolazione comparabile a quella dell’Ungheria, non dispone (in maniera anche autonoma dagli USA), di uno strumento militare capace di dettare legge (e terrore) in una regione instabile e ostile come il Medio Oriente?

Pure uno stato miserrimo come la Corea del Nord non riesce a perseguire, con una sua coerenza, i propri interessi strategici?

Veramente vogliamo credere che le nazioni europee (di cui pur nessuno nega che potrebbero anche ottenere ancora di più da progetti di cooperazione comune), non siano in grado di fare tanto quanto, se non di più, di nazioni di questo tipo?

L’Unione Europea, d’altra parte, esiste, anche per perseguire il fine specifico di coartare l’azione specifica degli Stati.

Questo è, tra le altre cose, espresso chiaramente da Brzezinski, nel suo celeberrimo “The Grand Chessboard”, il testo di riferimento fondamentale delle élite globalistiche su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Il pensatore strategico americano, scrive chiaramente come l’Unione Europea, di pari passo con la NATO, debba fungere da testa di ponte, su quella parte più ricca, più prospera e più avanzata, del continente euroasiatico per conto dell’Occidente, laddove per Occidente si intende un sistema preso come a sé stante, superiore agli stessi Stati Uniti, di cui gli Stati Uniti sono la parte principale e preponderante ma comunque pur sempre una parte (mette in guardia di come il sistema globale di diffusione del liberalismo occidentale potrebbe andare in crisi proprio qualora negli Stati Uniti si verificassero sommovimenti di tipo populista intesi a prioritizzare il mero interesse americano, inteso come interesse puramente nazionale, scindendolo da quello sistemico dell’Occidente globale; profezia interessante in tempi di trumpismo).

Questa testa di ponte del liberalismo globale deve servire a coartare l’attivismo e la vitalità “potenzialmente distruttrice” delle nazioni storiche d’Europa.

Viene ad esempio chiaramente detto che serve ad evitare potenziali intese tra le nazioni europee che potrebbero costituire delle minacce per l’ordine liberale promosso dagli Stati Uniti e i loro interessi.

Si menzionano potenziali cooperazioni russo-tedesche o anche franco-russe come rischi da scongiurare.

Si menzionano addirittura, per quanto il Regno Unito sia ovviamente identificato come primo alleato degli Stati Uniti, potenziali intese franco-britanniche che, mettendo a fattor comune le rispettive aree d’influenza degli ex imperi coloniali, potrebbero risultare sgradite agli Stati Uniti.

L’Unione Europea, nella visione di Brzezinski, viene invece in provvidenziale aiuto, imbrigliando e neutralizzando la capacità d’azione degli Stati, diventando invece in sé stessa un centro di diffusione dei principi e dei “valori” del liberalismo globale, al di là e al di sopra degli interessi specifici delle nazioni europee (e dei loro pericolosi retaggi tradizionali e identitari).

Anche sul ruolo della NATO in Europa, non bisogna ingannarsi.

Per quanto scrivesse negli anni ’90 ovvero all’apogeo dell’egemonia americana, Brzezinski immaginava in ogni caso che gli Stati Uniti potessero prima o poi volgere la propria attenzione su nuove scenari come l’Estremo Oriente o comunque che, progredendo il processo di globalizzazione, servisse un ribilanciamento e una riorganizzazione anche delle istituzioni di sicurezza globali – nella migliore delle ipotesi (per loro) si immaginavano addirittura dei nuovi patti di sicurezza intercontinentali, non ristretti quindi alla sola area nord-atlantica, chiaramente propedeutici ad una governance globale – con, quindi, la necessità di una maggiore contribuzione da richiedersi anche all’Europa.

Portando tali ragionamenti ad oggi, in un periodo in cui l’amministrazione Trump sembra concepire l’interesse americano come un puro interesse nazionale e non come l’interesse di un egemone all’interno di un sistema globale più vasto, sarebbe veramente paradossale se, invece di cogliere l’occasione per cercare per le nazioni europee maggiore autonomia e indipendenza, sotto la falsa bandiera dell’ ”Europa Potenza” e la pretese dell’ ”Europa della Difesa”,  si conferissero alle strutture globaliste nuove forze e nuove risorse, proprio nel momento in cui vacilla il ruolo centrale degli Stati Uniti.

Non è d’altra parte da dimenticare, che i presupposti dell’integrazione Europea, in gran parte, vennero tutti gettati da Winston Churchill (un alleato della Tradizione Europea più che un padre del nuovo ordine mondiale di matrice anglosassone?) con il suo discorso di Zurigo del 1946, in cui lo statista britannico, a tutti gli effetti primo artefice della vittoria alleata della Seconda Guerra Mondiale, fu il primo a prospettare la nascita degli “United States of Europe”, auspicando che gli Stati Uniti d’America, l’Unione Sovietica e la Gran Bretagna – la quale , in maniera molto accorta, non avrebbe dovuto farne parte – potessero benedire e sostenere il nascente progetto. Sir Winston terminava il discorso con un enfatico: “Let Europe Arise

Il ruolo immaginato da Churchill, l’uomo per eccellenza della “special relationship” anglo-americana, per le istituzioni dell’integrazione europea è alla fine lo stesso descritto da Brzezinski ed è quello dello spirito essenzialmente antitradizionale ed antieuropeo, che si dispiega da Bruxelles, ogni giorno, sotto i nostri occhi.

L’Unione Europea, in definitiva, è e non può che essere uno strumento del globalismo per eradicare l’esistenza stessa delle nazioni europee e nullificarne la porta d’azione a livello globale, al peggio sfruttarne la potenza materiale residua per sostenere i disegni ideologici dell’Occidente liberale a livello globale.

Confondere l’Europa, ovvero la nobile famiglia delle nazioni cristiane della sponda Nord del Mediterraneo (non è da dimenticare che la prima menzione del termine “Europa” si ha nelle cronache delle imprese di Carlo Martello che respinge i maomettani a Poitiers: l’Europa nasce per la rottura causata dall’Islam del mondo mediterraneo che si aveva nell’antichità e ha nella cristianità romano-germanica il proprio principio di unità formale), con l’Unione Europea è un processo tanto assurdo quanto sarebbe quello di confondere la dignità di una grande nazione come la Russia con quella sovrastruttura nota come Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche; circa l’alterità tra lo spirito tradizionale russo e quello sovietico si ritorni a Solzhenitsyn o a Ivan Ilyin,  che distingueva tra la e la “Sovdepiya” cioè la nazione del “Soviet dei Deputati”,  la mera sovrastruttura comunista instauratasi al di sopra e contro il popolo russo.

Sperare che l’Unione Europea possa volgersi in qualcosa che attualmente non è (un Impero Europeo?) in funzione di un principio di unificazione che non c’è (in nome di cosa si dovrebbe effettuare l’unificazione? del mercato comune da difendere dai dazi di Trump? dei “valori europei” ? quali ? quelli della democrazia dei diritti LGBTQ+?), rispetto a quello che attualmente invece è effettivamente (una delle massime costruzioni del globalismo liberale), è qualcosa di velleitario e che ignora lo spirito fondativo e la stessa struttura esistenziale dell’odierna Unione Europea.

Difesa, alleanza e cooperazione come approcci alternativi ai problemi europei (III)

Per le nazioni europee l’esigenza, sempre più pressante nel mutevole e sempre più incerto contesto geopolitico, di dotarsi di un’architettura di sicurezza autonoma dagli Stati Uniti e quindi dalla NATO, risulta essere ormai non più solo una necessità ideologica per tutti coloro che da decenni (dalla fine della Seconda Guerra Mondiale) denunciano la condizione di sudditanza dell’Europa nei confronti dell’America ma anche (finalmente) una necessità che si impone da sé, volenti o nolenti, alle dirigenze delle cancellerie europee, vista la nuova assertività dell’amministrazione Trump, informata al concetto esclusivistico dell’America First.

L’ineludibile necessità di sviluppare una politica di difesa europea, di nuovo, a scanso di equivoci, non può però e non deve essere il pretesto né per rivitalizzare un organismo di chiara matrice atlantista e globalista come la NATO, magari rafforzandola nella sua componente europea (come già preconizzava Brzezinski), né per offrire agli organismi dell’Unione Europea di Bruxelles nuove cessioni di sovranità, nell’ottica dello sviluppo di un “Esercito Comune Europeo” o simili, eventualità che sarebbe solo una enorme vittoria per le forze globaliste e un colpo di spugna sulla vitalità residua delle nazioni europee.

Che fare, dunque?

La risposta al quesito, apparentemente quasi insolubile, quasi non vi fosse alternativa tra lo stare al servizio della potenza militare americana e il liquidare l’esistenza politica delle nazioni europee a favore di un Moloch europoide (come i già churchillianamente evocati “United States of Europe”), può essere decisamente più semplice di quanto si possa immaginare.

Storicamente, lo strumento classico a disposizione di più nazioni per incrementare in maniera comune la propria sicurezza, senza rinunciare radicalmente alla propria sovranità politica, esiste e si ritrova nel concetto elementare di Alleanza e di stipula di un trattato di alleanza.

Nella realtà, nulla impedisce, non lo impedirebbe neanche la contemporanea (magari per un certo tempo) permanenza delle nazioni nella NATO e nella UE, la facoltà di stipulare un nuovo trattato di alleanza che imponga un vincolo di solidarietà e di difesa tra le nazioni firmatarie.

Paradossalmente già il Trattato del Patto Atlantico come quelli europei, in particolare il Trattato di Lisbona, nella loro formulazione formale, potrebbe essere preso come punto di riferimento, come “instrumentum laboris”, per la stipula di un nuovo Trattato di Alleanza Europea.

Sarebbe infatti così inconcepibile che le nazioni europee siglino tra loro, mantenendo il pieno possesso delle proprie sovranità e identità politiche, un trattato di difesa comune che replichi, ad excludendum degli Stati Uniti, del Regno Unito e della Turchia, gli stessi vincoli di sicurezza implicati dall’art.5 del Trattato Nord Atlantico?

L’articolo recita come segue: “Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale. Ogni attacco armato di questo genere e tutte le misure prese in conseguenza di esso saranno immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza. Queste misure termineranno allorché il Consiglio di Sicurezza avrà preso le misure necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali.”

E’ così impensabile e al di fuori della capacità d’azione delle nazioni europee prevedere che queste sottoscrivano tra sé un trattato, con eguali disposizione espungendo solamente i termini “America Settentrionale” e sostituendo quello di “regione dell’Atlantico Settentrionale” con quello di “Europa Continentale”, oltre che, magari, anche il riferimento al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (storicamente polarizzato eccessivamente sulla dualità USA-Russia)?

Un abbozzo di qualcosa di simile sarebbe anche già presente nell’art. 42 paragrafo 7 del Trattato di Lisbona che recita: “Qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri.

Gli impegni e la cooperazione in questo settore rimangono conformi agli impegni assunti nell’ambito dell’Organizzazione del trattato del Nord-Atlantico che resta, per gli Stati che ne sono membri, il fondamento della loro difesa collettiva e l’istanza di attuazione della stessa.”

Come si vede, la prima parte del trattato recita già, grossomodo, un principio di solidarietà difensiva per gli Stati Membri, fatto salvo il prosieguo in cui si attesta e si certifica la coesistenzialità radicale tra Unione Europea e NATO, dove la prima riconosce e sacralizza la seconda come “fondamento della difesa collettiva”.

Tuttavia, la formulazione di un nuovo trattato, specificatamente dedicata alla sicurezza e concepito “alla vecchia maniera” ossia come un  puro trattato di alleanza militare, laddove, come sì sa, il Trattato di Lisbona è invece un pletorico trattato, essenzialmente partorito dai burocrati europei per aggirare il NO del 2005 dai referendum di Francia e Olanda ai progetti di Costituzione Europea e che per altro affoga  le imprescindibili esigenze di sicurezza degli Stati Membri a margine di se stesso, tra i mille dettami circa le regole di funzionamento della UE, potrebbe superare il problema.

Il carattere puramente difensivo del trattato conferirebbe ad ogni singola nazione europea una capacità dissuasiva sufficiente rispetto ai rischi di una aggressione armata da parte di un’altra entità statuale, che si troverebbe a dover fronteggiare effettivamente la forza militare combinata di tutta l’Europa.

Resterebbe salva anche la facoltà di azione estera delle diplomazie delle singole nazioni, che potrebbero riavviare rapporti costruttivi e mutualmente proficui per esempio con la Russia, la quale non avrebbe più innanzi a sé un blocco di paesi allineati con gli interessi anglo-americani, inquadrati unicamente in organizzazioni intrinsecamente ostili come la NATO e la UE.

Al contempo, le nazioni non dovrebbero rinunciare alla propria esistenza politica né, di per sé, ai propri sovrani interessi nazionali, superando il problema costante e ricorrente che si ha in sede europee di tentativo di sintesi tra interessi divergenti.

Nessuno, ad esempio, potrebbe impedire in virtù di un trattato di pura alleanza difensiva, all’Italia di condurre operazioni di sicurezza nel Mediterraneo, incluse proiezioni di forze sulla sponda sud, qualora Roma decidesse, prima o poi, di risvegliarsi e di voler difendere anche con l’impiego dello strumento militare, i nostri interessi nazionali in un teatro chiave questo.

Oppure lo stesso dicasi della Francia, unica potenza nucleare che potrebbe essere firmataria del nuovo trattato di alleanza, che non potrà essere impedita nel perseguimento dei propri interessi strategici nell’area subshariana o altrove.

In virtù della clausola di difesa reciproca, almeno indirettamente, sarebbe estesa la copertura dell’ombrello di sicurezza nucleare francese agli altri Stati europei, senza necessità che la Francia si spossessi, come evocato dal presidente Macron e come, giustamente denunciato dai patrioti francesi, della titolarità della propria “force de frappe”.

Con un’inquadratura simile, ciò che dovrebbe poi seguire, dovrebbero essere degli accordi di cooperazione tra le industrie della difesa europea (in Europa esistono tutte le competenze tecniche per avere armamenti all’avanguardia in ogni settore), per poter fornire una solida base industriale all’Alleanza.

Che tale capitolo, ovvero quello della base industriale della difesa europea, sia un capitolo dolente, è cosa nota a tutti.

Avere anche un fantomatico “Esercito Comune” servirebbe a ben poco, se non vi fossero industrie capaci di armarlo.

Su questo ovviamente, l’Unione Europea è stata del tutto inefficace (vedasi anche l’esperienza del conflitto ucraino) e questo non sorprende chi, d’altra parte, è convinto che l’inefficacia dell’UE in tali settori alla sia fine coerente con la sua stessa ragione sociale che è schiettamente politica: coartare e sopprimere le sovranità in Europa.

Il rafforzamento della base industriale europea si potrebbe realizzare, invece, prevedendo innanzitutto una clausola di fornitura tra i paesi sottoscrittori dell’Alleanza, di materiali per la difesa, solo se prodotti negli stessi paesi signatari.

Ha senso, infatti, di parlare credibilmente di “Europa della Difesa” quando una dozzina di paesi europei hanno in servizio F16 e F35 della Lockheed Martin o quando la Polonia, varato il suo piano di ammodernamento per le sue forze corazzate, spicca ordinativi per l’industria della Corea del Sud o, di nuovo, degli Stati Unititi?

L’inserimento di una mera clausola di preferenza continentale, senza ulteriori specifiche che limiterebbero la libertà d’azione e la flessibilità degli Stati e dei rispettivi Stati Maggiori, creerebbe l’incentivo per rafforzare una rete di produzione industriale europea solida e spontaneamente integrata.

Le varie industrie della difesa europea (l’italiana Leonardo, la francese Thales, la tedesca Rheinmetall etc…) avrebbero l’incentivo per creare consorzi di cooperazione industriale su progetti specifici, sulla falsariga del progetto Airbus che sottrasse negli anni’80 all’americana Boeing il suo sostanziale monopolio nel mercato dell’aereonautica civile, progetto varato su iniziativa  e in chiave essenzialmente di cooperazione intergovernativa, prima della sottoscrizione di Maastricht, della nascita della UE che rimane, ad oggi, praticamente unico progetto europeo di successo.

In sintesi: le capitali europee dovrebbero cogliere l’occasione della finestra di opportunità aperta dell’amministrazione Trump con le sue esternazioni di disingaggio degli USA, per poter riprendere in mano i propri destini e sviluppare una nuova politica coerente con quella che un tempo si definiva come “l’Europa dei Popoli e delle Patrie

L’America di Trump ovviamente cercherà di fare i propri interessi, in primis cercando, intrecciando la politica di difesa con quella commerciale, di aumentare le esportazioni americane di materiali militari verso l’Europa e in ogni caso, potrebbe anche limitarsi ad ottenere i tanto richiesti aumenti di spesa per ribilanciare i contribuiti che l’Europa offre al sistema della NATO.

Questo è normale e non deve sorprendere nessuno.

Detto questo, tuttavia, visto la rimessa in causa degli equilibri internazionali apportati dalla stessa politica dell’America First, noi europei avremmo concretamente l’occasione di avviare una dialettica improntata alla ricerca di una nuova autonomia e indipendenza strategica.

Nel farlo (ed è possibile farlo), non dobbiamo però cadere nelle sirene dei federalisti europei che, da Zurigo 1946, ci invitano, in inglese, a perseguire strade essenzialmente liquidatorie delle nostre storie e delle nostre identità.

Forse, un giorno, potrà anche rivivere in Europa l’idea di Impero ma oggi, realmente, ciò che possono ancora vivere, sono le nazioni, le patrie e i popoli.

In alternativa, avremmo solo degli altri “United States”.