Dante scrisse questo trattato in stretta relazione con le epistole V, diretta ai signori d’Italia, VI, diretta ai Fiorentini e VII, diretta all’imperatore Arrigo (o Enrico VII) stesso, probabilmente dopo il 1313, e scelse di scriverlo in latino per sottolinearne il carattere aulico, a differenza del “democratico” Convivio o della Commedia, opere scritte in volgare perché nelle intenzioni di Dante avevano carattere universale.
L’ idea del Sacro Romano Impero rifulse nel cielo delle speranze di Dante quando Arrigo VII scese in Italia e il suo ideale di governo di uno solo, necessario per il bene del mondo, sembrò materializzarsi davanti agli occhi di tutti.
Tre erano le domande che il grande fiorentino pose in tre diversi trattati. La prima se, appunto, il governo di uno solo sia necessario. La seconda se il popolo romano nella Storia abbia compiuto questo ufficio. La terza se l’autorità del monarca dipenda direttamente da Dio, come proclamato nelle incoronazioni, o da un ministro o vicario di Dio, come accade nella realtà storica. Per dare una risposta Dante si serve della Filosofia morale e della conoscenza della Storia ed osserva tutti gli atti umani, in analogia col Convivio, individuando nel realizzazione delle attività speculative il fine ultimo dell’Uomo, che così riesce a dare un senso alla propria esistenza. Ma perché ciò avvenga è indispensabile la pace, che diventa una “conditio sine qua non”, quindi, per le attività prima speculative e poi pratiche. Dante è profondamente cristiano ed è quindi un uomo di pace. Questa importante condizione sì può conseguire solo con la Monarchia, intendendo l’Impero, la sola forma di governo che realizza l’ordine totale. Solo un giudice supremo, di suprema serenità perché non affetto da cupidigia in quanto ha già tutto, può dirimere nel modo più giusto ogni controversia che sorga fra stato e stato. I monarchi e gli ottimati che saranno da lui guidati governeranno, sotto la sua luce, con spirito di giustizia e non col desiderio di cavare guadagno opprimendo il popolo, col solo desiderio, come il Veltro (Cangrande della Scala?) di portare felicità e benessere, dando quindi un senso etimologico alla parola “auctoritas”, collegata al verbo “augeo”, che significa “accresco”, come “Augustus”, “augmentum”e il gr.”auxano”.
Sapienza, amore e virtute saranno le sue doti. Soltanto nella Roma di Augusto tutto ciò poté compiersi ed avere piena realizzazione storica, per cui Dante trova giusto e fondato il dominio di Roma sul mondo. Il Poeta confessa di aver creduto in passato che il potere di Roma si bastasse sulla violenza, ma un più profondo esame dei fatti storici lo aveva portato alla certezza che l’ Impero Romano era stato voluto dalla Provvidenza divina. A fondare questa affermazione è il Diritto di Roma, retto da un tale principio di giustizia che può derivare solo da Dio. Il Diritto quindi preesiste nella mente di Dio ed è espressione della sua volontà e si sostanzia in quella che è stata definita la giusta proporzione tra uomo e uomo. L’ idealizzazione di Dante del popolo romano, definito “santo” oltre che pio e glorioso va visto anche nell’interpretazione etimologica di questi aggettivi, che oggi hanno assunto un diverso significato. È noto che “pius” significava più che altro rispettoso delle divinità, della religione e del costume degli antenati, del “mos maiorum”. Grazie a queste qualità i Romani poterono prevalere dopo Assiri, Egizi, Persiani e Macedoni. Cristo volle nascere, secondo Dante, proprio all’epoca di Augusto per riconoscerne le divine qualità.
Nel terzo trattato (nel trattato), dopo aver posto i principi, ne svela gli avversari nel pontefice di allora e nei suoi zelanti pastori, che non si rivelano come parte di una Chiesa che sia santa e cristiana.
Come la luna riceve la luce dal sole, si argomentava, così l’Imperatore riceve la sua autorità dal Pontefice. Ma Dante, con grande sottigliezza, sottolinea che il Papa non è Dio e, se è pur vero che la Chiesa precede storicamente l’Impero, non lo precede per autorità. Fondamento della Chiesa è Cristo e il suo regno non è di questo mondo e a chi rammenta che Carlo Magno ricevette la sua autorità dal Pontefice o a chi ricorda la Donazione di Costantino (la cui falsità non era ancora stata svelata) Dante oppugna che un imperatore Michele sedeva a Costantinopoli e che l’abuso non costituisce diritto:” usurpatio iuris non facit ius”.
La soluzione della controversia è per Dante nel fatto che il Papa e l’Imperatore sono uomini e per il bene dell’umanità devono ricondursi a uno, restando nelle rispettive prerogative, rispettivamente spirituali e temporali. La Chiesa non ebbe quindi mai la virtù di conferire autorità all’Impero, non avendola ricevuta né da Dio né dell’universalità degli uomini, tanto più che questa virtù non è conforme al Cristo. Ne consegue che l’Imperatore può dipendere solo da Dio e quindi la necessità di una duplice direttiva della condotta umana: nell’ordine spirituale spettante al Pontefice e nella ricerca della felicità sulla terra spettante all’Imperatore.
A questo punto, nella visione di Dante, l’Imperatore, pur derivando la sua autorità solo e direttamente da Dio, deve al Pontefice la giusta reverenza che si deve a chi si occupi di cose spirituali, che sono sempre superiori a quelle materiali.
Col “De Monarchia” Dante si pone certamente in opposizione ai curialisti indicando la retta soluzione per la giusta convivenza tra i supremi ordini e ponendo una netta distinzione fra Spirito e Materia, li armonizza in analogia a quanto avviene per l’essere umano, composto da corpo e anima che, pur distinti si compenetrano. È quindi il trattato dell’armonia (collegamento) e della concordia. Un’opera che, come tutta la produzione dantesca va al di là del tempo e merita sempre la nostra attenzione per meditarvi continuamente.