L’Istat avvisa che alla fine di questo 2021 certificherà che la popolazione italiana è scesa a un po’ meno di 59 milioni di abitanti, prevedendo che nel 2050 i morti saranno il doppio dei nati.

Due conti demografici: per garantire la perpetuazione di una cultura (tradizione, spiritualità, socialità, moralità) gli esperti ci dicono che è necessario un tasso di natalità pari a un pochino di più di due figli per famiglia, un tasso inferiore porterebbe pian piano all’estinzione, un tasso di 1.9 – che più o meno corrisponde a quello attuale in area europea – qualora si protraesse, innescherebbe il cammino verso la fine, ossia verso la sostituzione di una realtà filogenetica, spirituale, culturale e sociale con un’altra.  

La situazione è grave e solo chi è fortemente miope non si accorge di quello che fra una o due generazioni (massimo 60 anni) saranno l’Italia e l’Europa, qualora perdurasse l’approccio ideologico alla realtà che è andato consolidandosi negli ultimi decenni.

Poco male, rispondono i supporter dell’accoglienza ad oltranza (ovviamente accoglienza anche di coloro che ci odiano, ritenendo che siamo stati feroci crociati e torvi colonialisti che ora devono pagare il fio delle malefatte compiute), con gli immigrati la crisi demografica sarà risolta e – udite udite! – l’INPS potrà così continuare a pagare le  nostre pensioni.

Ma attenzione, perché l’idea dell’accogliamoli tutti si sposa con la politica malthusiana della genitorialità pianificata (a tutti i costi) e con la promozione delle coppie sterili per premessa, quelle omosessuali, per cui:  tra i nuovi che arrivano (propensi ad imporsi) e quelli che non nasceranno, fra una generazione o poco più rischiamo seriamente di scomparire.

Calo demografico al quale si aggiunge, poi, un consistente calo della nostra autostima.    

Se quest’ultima considerazione a qualcuno dovesse sembrare politicamente scorretta, ebbene rilanciamo con considerazioni che saranno ritenute scandalose ma che, ne siamo certi, corrispondono alla verità. Quella verità che, essendo pressante, scappa, proprio come scappa la pipì quando la vescica è colma, quella verità che, chi scrive, ha potuto percepire trascorrendo gran parte della vita nei paesi del mondo arabo-islamico in cui il senso identitario è molto forte, in quelli dell’Africa sahelo-sahariana – povera ma fiera della propria identità – attraversati da gente in marcia per quell’illusorio Eldorado rappresentato dall’Europa, nonché tra le comunità islamiste incistate da noi in cui si sono affermate consuetudini tradizionali spesso in contrasto con le nostre norme.

Quella verità per cui «sia il tuo sì un SI e il tuo no un NO» che ci sforziamo di ignorare.

Pensate veramente che quando la nostra Italia e l’Europa saranno stravolte nella loro filogenesi e nella loro cultura, tradizione e spiritualità – e saranno più «negre» (absint iniuria verbis) che «bianche» e più arabe e islamiste che caucasiche e cristiane – saranno migliori e più libere?

Da emigrato che chi scrive è stato, sorgono alcune domande di carattere generico e a titolo paradigmatico: si ha idea di che cosa voglia dire avere un padrone appartenente a quella stirpe della specie umana la cui pelle ha il color marrone più o meno scuro ?

Si sappia che loro, a differenza nostra, sono giustamente fieri della loro negritudine, per cui riteniamo sia doveroso rispettare quello che è il loro auditum identitario. Dire a un negro che è negro significa riconoscere la dignità di quella persona che è, la quale va fiera della sua identità e noi siamo chiamati a rispettarla senza cambiarne i connotati naturali. Rimandiamo a un’interessante rivista mensile intitolata «Nigrizia» (è evidente il riferimento alla negritudine) edita dai padri comboniani i quali non possono certo essere accusati di razzismo.

Avete idea di che cosa vuol dire avere un padrone appartenente a quella stirpe della specie umana che vive nella penisola arabica e che professa la spiritualità islamista, ed è convinto che chi non è ancora diventato musulmano sia un reietto?

Avete mai chiesto a un negro (ribadisco: absint iniuria verbis) che lavora per un padrone negro che tipo di padrone tende ad essere il negro?

Avete mai chiesto a un arabo, un filippino, un cingalese, etc… che a causa della miseria si adatta a lavorare per un padrone arabo-islamista del Golfo, che tipo di padrone sia quello lì?

Rispondo in maniera altrettanto generica e paradigmatica, conscio di suscitare scandalo ma di dire la verità: due prepotenti dediti al basso sfruttamento, che non hanno remore a schiavizzare chiunque lavori per loro o da loro dipenda. Due prepotenti che se ne fregano della dichiarazione dell’ONU sui diritti umani e meno ancora dei diritti dei lavoratori. Due prepotenti che non avrebbero remore a ricorrere alle pene corporali nei confronti dei loro dipendenti.

Prepotenti che, senza dubbio, esistono anche da noi, il fenomeno del caporalato è noto, ma che da noi non è generalizzato e chi lo pratica non lo fa alla luce del giorno, perché certo di commettere un reato. Questa è la verità!

Ribadisco trattarsi di considerazioni generiche e a carattere paradigmatico, ma che sono frutto di una pluridecennale esperienza di vita nel mondo arabo-islamico e africano, e che lumeggiano una situazione reale perché:

  • nei paesi del mondo arabo-islamico in cui vige l’Islam radicale, le dichiarazioni dei diritti dell’uomo promosse dall’ONU nel 1964 sono state rigettate e chi non è musulmano è considerato un dhimmi. Vogliamo parlare della situazione di schiavitù in cui versano operai e inservienti del Bangladesh in Arabia Saudita?
  • nei paesi africani, in cui vige il tribalismo e le relazioni sociali sono profondamente condizionate dallo spirito clanico, la realtà parla da sé. Vogliamo parlare di capi di stato come Mugabe, Idi Amin Dada, Menghistu, Bokassa, Seku Touré, Mobutu, Nguema, Omar Al Bashir, etc.., e dei capi tribù con decine di mogli e centinaia di figli, e anche qualche schiavetto o schiavetta?

Quando l’Europa sarà stata rivoltata come un calzino nella sua identità filogenetica, tradizionale, culturale e spirituale, da una immigrazione incontrollata di pochi profughi e tanti uomini che profughi non sono – ma che sono solo migranti economici (per usare un eufemismo) che portano con sé una vis identitaria consolidata e alimentata dai nostri continui auto-j’accuse – chi l’avrà spuntata, sia esso negro o arabo-islamista, non darà spazio ai diritti umani e alle manifestazioni culturali, tradizionali, spirituali diverse dalle proprie, e l’Europa sarà solo una landa desolata formata dai nuovi padroni e da pochi europei sottomessi. Noi saremo sostanzialmente estinti, e questo anche in virtù della folle cancel culture che da qualche anno sta demolendo, da dentro, l’agonizzante Occidente.

Si faccia molta attenzione con le autoaccuse, con il continuo bidet che facciamo alla nostra coscienza, che ci viene imposto di percepire oltre modo sporca. Tutto questo fomenta nella gran parte degli immigrati il peggior revanscismo e alimenta in noi ingiustificati sensi di colpa, privi di fondamento storico, destinati a indebolire noi e corroborare loro.

Lo spirito della maggior parte di coloro i quali giungono da noi è quello del «ce lo devono». Basta chiacchierare in libertà con qualcuno di loro, o ascoltare cosa dicono nei loro capannelli.

Il colonialismo è il fenomeno storico più recente sul quale sono state caricate le peggiori nefandezze razziali. Per alcuni aspetti è vero, ma per molti altri no. Ebbene, diamogli un’occhiata.

Figlio di quel fenomeno europeo generalizzato dei secoli XIX e XX che fu il positivismo, il razzismo è stato un fenomeno che ci ha visti coinvolti con limitati (almeno per noi italiani) episodi di vieta tracotanza nei confronti dei colonizzati. Non si dimentichi, però, che son passati ben tre quarti di secolo da quando abbiamo lasciato le nostre colonie. Inoltre, non faremmo male a porci, pragmaticamente, le seguenti domande (forse per qualcuno esecrande), ma che potrebbero esorcizzare molti dei nostri ingiustificati sensi di colpa:

  • se i colonizzatori fossero stati gli africani, gli arabi o gli indiani, siamo sicuri che questi si sarebbero comportati meglio di noi, dei francesi, degli inglesi, dei tedeschi, dei belgi, degli spagnoli, dei portoghesi? Ossia, i musulmani, gli indù, i buddisti e gli animisti, si sarebbero comportati meglio di noi cristiani? 
  • trascorso il tempo di quel colonialismo, avrebbero maturato gli stessi complessi di colpa che noi continuiamo ad alimentare dopo ben tre generazioni che il colonialismo ha smesso di esistere?  E nelle nostre campagne e città avrebbero lasciato quello che abbiamo lasciato noi nelle loro?

Pensiamo proprio di NO perché, fatta la tara degli eccessi commessi da alcuni coloni fetenti, il rapporto colonizzato/colonizzante si basava su un’etica cristiana, più specificatamente cattolica (quella protestante, avendo aderito al pensiero positivista, è, invece, maggiormente esposta alle derive razziste).

Affrontiamo la realtà per quella che è:

  • se fossimo stati colonizzati da etnie musulmane, saremmo dovuti diventare musulmani o avremmo dovuto accettare la condizione di dhimmitudine, perché questo prevede la loro legge celeste e terrena;
  • se fossimo stati colonizzati dagli indiani, probabilmente questi non avrebbero forzato la mano sulla conversione ma saremmo stati ostaggio di una condizione di privazione dei diritti umani universali, come ne sono privi gli uomini delle caste inferiori; e comunque, dove imperano gli induisti, ai cristiani è riservata una vita ben grama, basti guardare cosa avviene in Bangladesh o in India (altro che poetico ed esotico «namasté» a mani giunte); 
  • se fossimo stati  colonizzati dagli africani, stanti i loro capi di Stato sopra citati, ai quali andrebbero aggiunti anche Yomo Keniatta e Macías Nguema (che in Kenia e in Guinea Equatoriale hanno instaurato una dittatura “sacrale”), questi non avrebbero avuto le stesse remore, ancorché a volte tradite, che i coloni bianchi hanno avuto nel trattare il colonizzato;
  • quanto al lascito post coloniale, analizzati i livelli tecnologici, costruttivi, organizzativi, produttivi, dei paesi già colonizzati, non pensiamo che avrebbero potuto contribuire al nostro sviluppo come noi cattivi colonizzatori abbiamo contribuito (pur con tutte le contraddizioni, ipocrisie, cattiverie) al loro. In merito, si consiglia la lettura di un Atlante Geografico De Agostini degli anni 1935-40 alla voce Eritrea ed Etiopia, ma anche Libia e Somalia, per scoprire quanti km di strade e ferrovie, quanti ambulatori medici e veterinari, quante farmacie e uffici postali sono stati realizzati dalla colonizzazione italiana.

Dopo tanta scorrettezza politica, chi scrive vuole esplicitare una propria intima convinzione, per allontanare l’eventuale accusa di razzismo che qualche malpensante starà già lanciando: chi scrive crede nella dignità ontologica della natura umana, la quale accomuna tutti gli esseri umani; ma esistono delle differenze – tanto tra le singole persone, quanto tra i popoli e le etnie – le quali sono il risultato di diversi modi di porsi dinnanzi all’esistenza e di concepire il senso della vita.

Da cattolico – da uomo religioso – provo profondo rispetto per il musulmano che tira fuori il suo tappetino ovunque egli sia e si inginocchia rivolto verso la Mecca per pregare Allah. E lo stesso rispetto lo provo per qualsiasi uomo che con i gesti che gli sono propri si soffermi a pregare il suo Dio. Quello che si deve detestare è l’indifferentismo e la malsana mania – da tempo affermatasi in Occidente – per cui tutti hanno diritto al rispetto, tranne noi in quanto eredi di un passato da condannare e da rimuovere. 

I miei amici arabi e negri in buonafede, irridono quei comuni amici europei che esprimono un’autocritica spesso ispirata alla piaggeria, che puzza di “excusatio non petita” facendo ammenda per le crociate e per i “depassement” dei loro bisnonni colonialisti.

Al mio intimo patrimonio di ex emigrante, appartiene un’analisi casereccia sul colonialismo fatta da un amico marocchino, il quale un giorno mi disse:

“i francesi ci hanno oppressi e sfruttati imponendoci di sopportare quel loro caratteristico atteggiamento di superiorità per cui nelle scuole, anche a noi maghrebini, ci insegnavano che i nostri antenati erano i galli (“nos ancêtres les gaulois”); ci siamo liberati di loro dopo una lotta di indipendenza sanguinosa, anche se molto meno traumatica di quella algerina, e con ricadute sul futuro del nostro paese molto meno disastrose … ma la loro dominazione non può essere considerata solo una iattura, senza di essa adesso non avremmo quegli ‘acquis’ che costituiscono la ricchezza del mio paese … Conosci un marocchino che serbi rancore per il Maréchal Lyautey? (era il Governatore francese durante il protettorato) … C’è addirittura un apprezzato liceo francese a lui intitolato a Casablanca e nel cortile del Consolato di Francia, ben visibile dalla piazza più importante della città, campeggia addirittura la sua statua equestre! (Sarebbe un po’ come se da noi a Milano fosse visibile da piazza del Duomo la statua equestre di Radetzky). È la storia amico mio! ci lascia sempre dei doni, basta saperli individuare e farli fruttare”.

Che sacrosanta verità! Una onesta visione della storia, scevra da quei pericolosi rancori spesso artatamente fomentati per reiterare l’odio suscettibile di innescare il revanscismo degli immigrati e la nostra messa in mora.

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