San Pio X, pontefice dal 1903 al 1914, è normalmente associato a quello che alcuni storici della Chiesa bollano impropriamente come “cattolicesimo intransigente”. In realtà, mi sembra doveroso chiarirlo fin dall’inizio di questo breve scritto, non esiste un “intransigentismo” ed un “progressismo”, ma unicamente la fedeltà o la non fedeltà al depositum fidei, la cui maggiore comprensione nel corso dei secoli non implica anche un adeguamento ai tempi e, dunque, una sua relativizzazione.

Papa Sarto era ben consapevole di questo: l’esegesi biblica che esula dal fatto che tutta la Sacra Scrittura sia stata ispirata da Dio; la prevalenza dell’azione sull’essere (si veda, a titolo esemplificativo, il pensiero di Blondel, le cui opere sono oggi osannate nelle Facoltà Teologiche e negli Istituti di Scienze Religiose), che determina una scissione tra metafisica ed etica e pone le premesse, anche in campo cattolico, per l’autodeterminazione assoluta dell’uomo sia come singolo sia nella sua dimensione collettiva (aspetto che si era imposto fin dall’eresia luterana); i dogmi come espressione dell’esperienza interiore di ciascuno; la distinzione tra il Cristo della fede ed il Cristo della storia furono le grandi battaglie che dovette combattere il Papa di Riese (provincia di Treviso) con tenacia e coraggio all’interno del variegato movimento modernista.

Pio X, però, non solo condannò le eresie del suo tempo, soprattutto con la grande e nota Enciclica Pascendi Dominici Gregis dell’8 settembre 1907, ma preconizzò “profeticamente” il dramma della Chiesa post-conciliare, dove i principi della Fede, quali l’infinita misericordia di Dio, l’amore per il prossimo, la legge naturale, sono sempre più disgiunti dalla Verità attraverso veri e propri atti del Magistero ordinario, interni cioè alla stessa Ecclesia Christi e non più provenienti dall’esterno.

È questo che segna il passaggio dal modernismo della fine dell’800 e dell’inizio del ‘900 al neomodernismo odierno, che entra nei Sacri Palazzi con il Concilio Vaticano II (1962-1965). La negazione dell’esistenza di un Dio cattolico, una prassi pastorale che, in nome del discernimento (il quale non può mai arrivare a contraddire la sana dottrina), giustifica situazioni consolidate nella mentalità contemporanea, ma non per questo giuste agli occhi di Dio, l’affermazione di una religione ecologista e quasi panteistica, un linguaggio cripto-eretico che volutamente intende dare adito alle interpretazioni più disparate, ingenerano confusione ed errore tra i fedeli, incrementando quel primato del soggettivismo etico rispetto a quanto Dio ha rivelato mediante la Sacra Scrittura e la sana Tradizione della Chiesa cattolica.

Si pensi solo alla spinosa questione della comunione ai divorziati risposati, la quale, sebbene non affrontata apertis verbis nell’Esortazione Apostolica post-Sinodale del 2016 Amoris Laetitiae di Papa Francesco, è oggetto di una ermeneutica differente all’interno delle Conferenze episcopali che stanno, da tempo, operando nella Chiesa mediante una sorta di “magistero parallelo”.

Ha ragione, sul punto, la Conferenza polacca a negarla o quella argentina a consentirla? Il pontefice del “guerrone” lo aveva anticipato: “I fautori dell’errore già non sono oramai da ricercarsi fra i nemici dichiarati, ma, ciò che dà somma pena e timore, si celano nel seno stesso della Chiesa, tanto più perniciosi quanto meno sono in vista” (cit, Pascendi Dominici Gregis).

Daniele Trabucco

Associato di Diritto Costituzionale italiano e comparato e Dottrina dello Stato presso la Libera Accademia degli Studi di Bellinzona (Svizzera) – Centro Studi Superiore INDEF (Istituto di Neuroscienze Dinamiche “Erich Fromm”). Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico.

Articolo precedenteL’assurda esibizione che ha offeso l’onore militare
Articolo successivoEuropa e popolo europeo: pensieri tra politica e sentimento