Nulla di troppo, recita l’iscrizione sul frontone del Tempio di Delfi.

Il senso del limite, l’unica saggezza che i Greci, la nostra cultura più profonda, ci hanno tramandato. Un monito che l’Occidente paranoico e prometeico, nella sua hybris sfrenata, ha calpestato. Eppure, in una notte dell’ottobre 1985, in una base NATO in Sicilia, per una volta il limite fu imposto.

Non da un dio dell’Olimpo, ma da un uomo, Bettino Craxi, che davanti al padrone americano, al suo Delta Force che già premeva sui mitragliatori, seppe dire, da sovrano, “basta, qui, su suolo italiano, il diritto lo facciamo noi”.

L’antefatto: il mare insanguinato e il delitto “perfetto”
Tutto era cominciato con il dirottamento dell’Achille Lauro, un transatlantico italiano.

Il 7 ottobre 1985, quattro terroristi del Fronte per la Liberazione della Palestina, un gruppo scissionista, prendono il controllo della nave tra Alessandria d’Egitto e Ashdod in Israele. I loro mitra rimbombano nella sala da pranzo, il panico si diffonde tra i passeggeri, in gran parte anziani.

La loro richiesta è la solita, rituale, quasi noiosa: la liberazione di 50 palestinesi dalle carceri israeliane. Ma è una tragedia annunciata. La Siria nega alla nave l’approdo nel porto di Tartus. Ed è a questo punto che la follia ideologica, l’odio che acceca, compie il suo gesto atroce e vigliacco.

Leon Klinghoffer, un americano di 69 anni, ebreo, paraplegico, viene freddato con un colpo alla testa ed un altro al petto. Il suo corpo, insieme alla sedia a rotelle, viene gettato in mare dalla ciurma, costretta con la forza a compiere l’osceno rituale.

È l’oltraggio supremo. Non solo si uccide un ostaggio inerme, ma si nega persino la sacralità della sepoltura alla famiglia, alla terra.

Sua moglie Marilyn, che non aveva assistito all’esecuzione, viene ingannata: le dicono che il marito è stato portato in infermeria. La verità, la cruda, spietata verità, la saprà solo dopo.

I dirottatori, intanto, trattano la resa. Vogliono un safe conduct, un salvacondotto. E l’Egitto, con quella compiacenza che a volte i governi hanno verso i carnefici pur di chiudere una partita scomoda, glielo concede. Un aereo di linea egiziano li attende al Cairo per portarli, al sicuro, in Tunisia.

Lo scontro: i Carabinieri contro i Delta Force

Ma dall’altra parte dell’Oceano, Ronald Reagan, il cowboy che ha fatto dell’America il gendarme del mondo, non ci sta. “Questi figli di puttana devono essere processati!”, è la linea, giusta nella sostanza, ma ferocemente prevaricatrice nel metodo.

Approva un piano di intercettazione. Quando il Boeing 737 egiziano decolla, dai cieli piovono gli F-14 Tomcat della U.S. Navy. Senza annunciarsi, come falchi nel buio, scortano l’aereo verso un atterraggio forzato.

La destinazione? La base NATO di Sigonella, in Sicilia.

È qui che la storia si fa grottesca, epica, surreale. Sulla pista atterrano, quasi in contemporanea, l’aereo dei fuggitivi, i caccia americani e due C-141 con a bordo i Navy SEALs e i Delta Force, le forze speciali d’élite americane. Il piano è chiaro: circondare il velivolo, catturare i dirottatori e il loro leader, Abu Abbas, che a sorpresa è lì con loro, e portarli in America, in spregio a ogni sovranità nazionale.

Ma Craxi, che aveva seguito la vicenda in presa diretta, parlando persino al telefono con il comandante della nave, ha un’altra idea.

Reclama il diritto italiano alla giurisdizione. “Il dirottamento è avvenuto su una nave italiana, il processo sarà di competenza della magistratura italiana”.

E così, mentre i soldati americani circondano l’aereo, accade l’inimmaginabile. I Carabinieri e i militari dell’Aeronautica italiana (VAM) circondano i marines.

Per ore, nella notte siciliana, si consuma uno stand-off da guerra fredda, ma tra alleati. Da una parte i Delta Force, armati fino ai denti, pronti all’assalto. Dall’altra i Carabinieri, determinati a far rispettare la legge italiana.

I mitragliatori si puntano gli uni contro gli altri. Il tenente colonnello dei Carabinieri Bruno Ficuciello, parola contro parola, grado contro grado, tiene testa al comando americano. Il mondo trema sull’orlo di un incidente internazionale dalle conseguenze imprevedibili. Alla fine, la ragion di Stato, la nostra ragion di Stato, prevale.

Gli americani, a denti stretti, si ritirano. I dirottatori passano alla giustizia italiana.

La beffa e il monito

La crisi si risolve, ma la partita non è chiusa. I quattro dirottatori saranno sì processati e condannati in Italia. Ma Abu Abbas, il mastermind dell’operazione, l’uomo che l’America voleva a tutti i costi, viene miracolosamente scarcerato e lasciato libero di andarsene.

Un affronto per Washington, un mistero per molti. Craxi, in un calcolo politico forse dettato da quella realpolitik che a volte sfiora il cinismo, aveva ritenuto che consegnare Abbas sarebbe stato un segnale di sudditanza inaccettabile, un’umiliazione per la sovranità nazionale.

La crisi di Sigonella non fu solo una lite tra alleati. Fu lo scontro tra due visioni del mondo. Da una parte l’egemonia americana, globale, brutale, che si crede investita del diritto di fare giustizia (o vendetta) in ogni angolo del pianeta. Dall’altra il principio, forse più vetusto ma per questo più umano, della sovranità nazionale, del diritto dei popoli di farsi le proprie leggi e di applicarle nei propri confini.

Fu un momento di lucida follia in cui l’Italia, per una volta, smise di essere la prostituta a stelle e strisce del Mediterraneo e mostrò la schiena dritta.

Un gesto che oggi, in un’epoca di ancor più sfacciata sudditanza atlantica, appare come un reperto archeologico, un fossile di un’era in cui la politica estera non era solo un ubbidire supino, ma poteva essere anche il coraggio di dire “no”.

E allora, cosa resta di quella notte di Sigonella? Il ricordo di un’Italia che, per una volta, osò essere antimoderna nel senso più profondo del termine: ossia capace di opporre la sua sovranità, le sue leggi, la sua diversità all’egemonia di un unico pensiero globale e omologante.

Fu un atto di autodeterminazione, un principio che dovrebbe essere sacro per qualsiasi popolo che non voglia finire inghiottito nella pancia molle di un impero.

Guardiamo l’Italia di oggi, il governo di Giorgia Meloni. E vediamo il suo esatto, drammatico contrario.

Mentre Craxi, pur tra mille calcoli e ambiguità, seppe dire “no” al padrone americano, l’esecutivo attuale non solo non trova una parola di autonomia, ma si piega supinamente a ogni diktat di un altro potere egemone, Israele.

Lo fa nella tragedia di Gaza, in cui il governo italiano, nonostante la retorica degli aiuti umanitari, si è distinto per un sostegno di fatto alla linea israeliana, arrivando persino a essere coinvolto in una denuncia alla Corte Penale Internazionale per presunto “concorso in genocidio”, scusate se è poco.

Si obietterà: ma le forniture di armi a Israele sono state sospese dopo il 7 ottobre! Una menzogna, come dimostrano i dati: l’export militare italiano verso Israele è proseguito, seppur in forme diverse, per milioni di euro.

È la solita, vecchia ipocrisia della politica atlantica: proclamare una cosa e farne un’altra, purché non si disturbi il manovratore.

L’Italia di Sigonella, per una notte, seppe dire “no”. L’Italia di oggi, la “sovranista” Meloni, non ha il coraggio di quel “no”. È un’Italia che, dopo aver svenduto pezzo per pezzo la sua sovranità economica e monetaria, ha ora abdicato anche a quella politica e morale.

È un’Italia inginocchiata non solo davanti a Washington, ma anche davanti a Tel Aviv, in una sudditanza che fa a pugni con i suoi stessi proclami e, soprattutto, con l’interesse nazionale.

Il parallelo è impietoso, ma necessario. Perché Sigonella non fu solo un incidente diplomatico. Fu la dimostrazione che un’altra Italia era possibile.

Oggi, di quell’Italia, non resta che il ricordo sbiadito e la lezione, amara, di un’occasione perduta.

Perché, come dico da sempre, SI all’autodeterminazione dei popoli!

E questo vale anche per noi.